#unacanzone01: Play Dead, Bjork

E’ il 2016. Sto guardando “Scrivimi una canzone” su La5 (e questo vi fa pensare all’alta qualità dei miei venerdì sera) e durante la pubblicità passa un promo con sottofondo “Play Dead“. Mi batte forte il cuore.
Sento l’esigenza fisica di smettere di fare tutto quello che sto facendo, prendere il telefono, cercare il brano, ascoltarlo.
Ogni volta che parte quell’incipit d’archi mi parte un’emozione incontrollabile. La stessa di quasi undici fa, quando ascoltai per la prima volta “Debut” di Bjork. Perché è di lei che stiamo parlando.

debut_bjork

Ecco, non so se a voi è mai successo che un brano continui a emozionarvi dopo uno, cento, mille ascolti. Io ricordo esattamente la prima volta che ho ascoltato “Play Dead”.

E’ il 2005. Me ne sto nel bus che da Borbiago, ridente cittadina della provincia veneta, mi porta a scuola a Venezia, all’ITT Algarotti. Sono le 7.20 del mattino e come di consueto accendo il mio Thompson, lettore CD da combattimento che ha un sacco di pregi, ma non il volume d’ascolto. Devo sempre tendere l’orecchio per ascoltare le canzoni, per superare il brusìo dei miei compagni e del gasolio del torpedone. Ma così facendo, devo per forza concentrarmi sui brani, sulla loro struttura, sulla melodia. I testi. Se non riesco a capire le parole vado fuori di melone.

Infilo “Debut” nel Thompson. Come tutti i cd originali, non è mio. L’ho preso in prestito in biblioteca, che sta contribuendo non poco alla mia educazione musicale. E poi Bjork è il mito di Elisa, e io adoro Elisa, quindi ogni sua parola è legge. Deve piacermi per forza Bjork e il suo “Debut”.

Inizio ad ascoltare con il sorriso sulle labbra, che via via scema. Non è esattamente quello che pensavo. E’ un disco allegro, pop, techno, d’avanguardia.
DENS.
Io sono esattamente l’opposto.
Ok, “Human behavior” mi piace, ma il resto scivola via un po’ come una saponetta.
Per non parlare di quella barba con l’arpa (?) e i suoni del mare di “Like someone in love“. Puah.

Se ritornassi indietro, mi direi stupida forte per aver snobbato dei pezzi come “Venus as a boy“, che poi scoprirei far parte della colonna sonora di Leòn (film che amerò), o “Big time sensuality” (con quel videoclip di Cristo diretto da Sednaui, dove lei è a New York, sul retro di un camion e balla) o “Violently happy” (un altro videoclip che manda letteralmente ai pazzi, questo diretto da Mondino).
Ma che volete farci… In quel periodo avevo dei gusti simili ad un abate del 1200 e tutto ciò che non si avvicinava al pop-rock era vera e propria eresia.

Poi succede il Miracolo.
Ultima track. Ultima possibilità.
Mentre sto per gettare la spugna, parte la rivalutazione totale.
Partono gli archi di “Play Dead“. Poi dei vocalizzi, delle urla d’aiuto, di qualcuno tenuto in gabbia che vuole uscire. E io smetto di respirare per qualche minuto. Mi incollo al sedile del bus e non riesco a fare altro che rimanere travolta da

Darling stop confusing me/ with your wishful thinking/ hopeful enbraces don’t you understand?/ I have to go through this/ I belong to here where no-one cares and no-one loves/ no light no air to live in/ a place called hate/ the city of fear/ I play dead it stops the hurting/ I play dead and hurting stops

La canzone continua e io ho paura di rimanerci secca. Batterie elettroniche e arrangiamenti orchestrali, ostinati. Quel ritornello cantato con rabbia e liberazione. E poi la finta dolce calma isterica delle strofe. Una dinamica killer.
La canzone finisce e io capisco che è cambiato qualcosa dentro di me.
Per un’adolescente in rotta con il mondo, incompresa, incazzata, inconsapevole di sè stessa, tutto questo sconvolge e turba assai.
Metto il repeat fino a Venezia. Scendo dal bus, faccio il Ponte degli Scalzi, la Lista di Spagna, passo a lato del Ponte delle Guglie sempre con “Play Dead” in repeat.

La giornata procede, non ricordo come.
Sta di fatto che torno a casa e faccio una cosa inusuale: copio dall’internet tutto il testo e me lo scrivo sul diarietto segreto.

(volete la foto del diarietto? Ce l’ho eh!)

E scopro che “Play Dead” è stata inserita più tardi in “Debut“, fa parte della colonna sonora di un film, “Young Americans“, e che Bjork ha avuto un po’ di difficoltà a cantare lo struggimento visto che viveva un periodo felice.

Se “Play Dead” non fosse stata inserita in “Debut“, se non avessi spinto per l’ultima volta il bottone play su quell’album, io non mi sarei mai innamorata di Bjork, il mio cuore non avrebbe smesso di battere per alcuni interminabili minuti, non mi sarei incollata alla sedia del bus in stato catatonico, io stessa forse sarei stata diversa da come sono ora.

Dunque.
Mille di questi innamoramenti.
Mille di questi “Play Dead“.
Mille di queste #unacanzone.