#unacanzone02: Io sto bene, CCCP

Io sto bene/ io sto male/ io non so come stare
Io sto bene/ io sto male/ io non so come stare
Non studio non lavoro non guardo la Tv
Non vado al cinema non faccio sport
Non studio non lavoro non guardo la Tv
Non vado al cinema non faccio sport

Sono sempre stata un’allieva modello, con un grande rispetto per le regole e per le persone. Ma in fondo in fondo, ho sempre saputo di essere una ribelle.
Una punk testarda e amorale che rifiuta di vivere convenzionalmente.
Per la sua natura egoista e distruttiva, la tengo a bada da quando sono nata.
Ma c’è.
E poi sono arrivati i CCCP.

2006
L’internet esiste, vado all’Università e io sono povera. Come tanti faccio la pendolare tra Mira e Padova, ogni giorno con lo stesso treno in ritardo, affollato e puzzolente. Ma il viaggio mi permette di scoprire un sacco di nuova musica.
La mia educazione enciclopedica si basa interamente sulla pagina “Le pietre miliari” del sito di Ondarock, dischi fondamentali per vivere meglio, e dato che non ho amicizie particolarmente ferrate nel campo mi fido.
Un po’ mi dispiace non avere un confronto, ma il gusto della ricerca da autodidatta sta proprio nella scoperta individuale, nel trovare poi le derivazioni di un genere musicale, nei successivi paragoni. Da autistica quale sono, mi diverto come una pazza.
Credo sia stato l’anno in cui ho ascoltato in assoluto più disc… (ehm, mp3). Molti non li ho capiti, li ho capiti poi, ma ha aperto di 270° i miei orizzonti musicali (che se ricordate l’articolo precedente, erano di un cruento abate del 1200).

Ondarock ad un certo punto oltre alle “pietre miliari” internazionali inserisce anche quelle italiane.
[ndr: adesso la lista si è inciccionita di un bel po’, ma all’inizio c’erano sì e no 5 titoli]. Oltre ai consueti Battiato, De Andrè, c’è un titolo tra i cinque che solletica la mia curiosità:

“CCCP – 1964-1985 Affinità-Divergenze Tra Il Compagno Togliatti E Noi – Del Conseguimento Della Maggiore Età”

Un titolo lunghissimo. Diverso dai soliti sintetici, striminziti, criptici titoli.
Un titolo da film alla Lina Wertmüller. Questa cosa mi piace tantissimo.
“Affinità e divergenze… Al conseguimento della maggiore età…”
Questa gente parla come me.
E poi è punk. E io, sotto sotto, il punk l’apprezzo.
Cerca il disco, clicca, carica sul lettore mp3 (il dolcissimo Creative MuVo, altro oggetto di culto della mia giovinezza) e via.

Ore 7.26 – Stazione di Mira-Mirano – una giornata imprecisata del 2006
Cuffiette nelle orecchie, drum machine, chitarre taglienti, una voce paranoica che canta recto tono (o al massimo con salto d’ottava) mentre tutto l’impianto cambia. Una voce che recita testi scarni ma graffianti, e a tratti sottolinea più volte dei concetti come se fossero slogan. Mi entrano subito nelle vene, mi sento un brivido lungo la schiena quando qualcuno canta per me “Un’erezione, un’erezione triste per un coito molesto, per un coito modesto/ Spermi spermi indifferenti, per ingoi indigesti/ io attendo allucinato la situazione estrema” (Mi Ami) o “Produci, consuma, crepa/ Produci, consuma, crepa/ Cotonati i capelli, riempiti di borchie/ rompiti le palle/ rasati i capelli/ crepa/ crepa” (Morire) o “Curami, curami, curami/ Prenditi cura di me, prenditi cura di me” (Curami).
Mi regalano tutta la violenza, l’irriverenza e la paranoia di cui ho bisogno.
Le parole che vorrei dire ma che non ho mai il coraggio di pronunciare.
Il canto e la visione della maledetta provincia, per loro l’appunto l’Emilia Paranoica, per me il vergognoso Veneto.

Cuffiette nelle orecchie e arriva lei, la Regina.
La mia canzone preferita IN ASSOLUTO.

Come decidere di radersi i capelli/ di eliminare il caffè e le sigarette/ di farla finita con qualcuno o qualcosa/ una formalità“.
Che senso ha decidere tutto? Che senso ha farla finita con qualcosa? Se smetto con le sigarette, o con le droghe, con una persona, con la vita, sto meglio?
Io sto bene, io sto male, io non so come stare.
L’inno di ogni bipolare, praticamente.
Cosa decide cosa ci fa stare meglio o peggio? E’ una formalità. Una convenzione.
Per la prima volta trovo qualcuno che pensa quello che penso io. Che sono libera di non etichettare sempre uno stato d’animo.

Il mantra “nonstudiononlavorononguardolaTv” anticipa di almeno 30 anni il concetto di neet (Not (engaged) in Education, Employment or Training) e c’è un film che ne spiega il senso.

“Tutti giù per terra”, di Davide Ferrario, tratto dal romanzo di Giuseppe Culicchia.
Il giovane Mastandrea è Walter, un disoccupato che vive a Torino, iscritto all’Università ma con scarsi risultati. Vive la vita a modo suo, con romanticismo e cinismo. In maniera anticonvenzionale.
Walter, un po’ per codardia e un po’ per grande lucidità, non riesce a prendersi le responsabilità che il mondo adulto attorno a lui si aspetta, e dopo aver ricevuto la convocazione per il servizio civile, finisce in un centro di assistenza frequentato da extracomunitari, dove nemmeno lì riesce a sentirsi utile e parte integrante della società.

I CCCP, divenuti in seguito CSI, curano la colonna sonora e prendono parte al film nei panni di una commissione d’esame che boccia Mastandrea all’esame. Il più credibile di tutti è Zamboni. Canali mi fa spaccare.

Ma c’è un altro film dove “Io sto bene” è presente. Un altro film pietra miliare, “Paz!”, di Renato De Maria.

Paz! è tratto dai fumetti del disegnatore Andrea Pazienza e ambientato nella Bologna del 1977. Il film non è lineare, è fatto più a sketch visto che i protagonisti sono gli stessi dei fumetti di Pazienza. Consigliatissimo, da guardare con la felpa “1977” di Joe Strummer addosso.
Colonna sonora di tutto rispetto e segnalo tra gli sceneggiatori troviamo un certo Ivan Cotroneo.

Io sto bene” diventerà poi nei miei anni una suoneria del cellulare legata a un certo numero e a un certo contesto tumultuoso, una valvola di sfogo nei momenti di rabbia estrema, una pregevole cover acustica fatta in un locale veneziano con la mia amichetta Licia Missori. Cambia sempre faccia e significato, ma continuo ad amarla infinitamente.

Vi saluto con l’omaggio più bello mai fattole.

#unacanzone01: Play Dead, Bjork

E’ il 2016. Sto guardando “Scrivimi una canzone” su La5 (e questo vi fa pensare all’alta qualità dei miei venerdì sera) e durante la pubblicità passa un promo con sottofondo “Play Dead“. Mi batte forte il cuore.
Sento l’esigenza fisica di smettere di fare tutto quello che sto facendo, prendere il telefono, cercare il brano, ascoltarlo.
Ogni volta che parte quell’incipit d’archi mi parte un’emozione incontrollabile. La stessa di quasi undici fa, quando ascoltai per la prima volta “Debut” di Bjork. Perché è di lei che stiamo parlando.

debut_bjork

Ecco, non so se a voi è mai successo che un brano continui a emozionarvi dopo uno, cento, mille ascolti. Io ricordo esattamente la prima volta che ho ascoltato “Play Dead”.

E’ il 2005. Me ne sto nel bus che da Borbiago, ridente cittadina della provincia veneta, mi porta a scuola a Venezia, all’ITT Algarotti. Sono le 7.20 del mattino e come di consueto accendo il mio Thompson, lettore CD da combattimento che ha un sacco di pregi, ma non il volume d’ascolto. Devo sempre tendere l’orecchio per ascoltare le canzoni, per superare il brusìo dei miei compagni e del gasolio del torpedone. Ma così facendo, devo per forza concentrarmi sui brani, sulla loro struttura, sulla melodia. I testi. Se non riesco a capire le parole vado fuori di melone.

Infilo “Debut” nel Thompson. Come tutti i cd originali, non è mio. L’ho preso in prestito in biblioteca, che sta contribuendo non poco alla mia educazione musicale. E poi Bjork è il mito di Elisa, e io adoro Elisa, quindi ogni sua parola è legge. Deve piacermi per forza Bjork e il suo “Debut”.

Inizio ad ascoltare con il sorriso sulle labbra, che via via scema. Non è esattamente quello che pensavo. E’ un disco allegro, pop, techno, d’avanguardia.
DENS.
Io sono esattamente l’opposto.
Ok, “Human behavior” mi piace, ma il resto scivola via un po’ come una saponetta.
Per non parlare di quella barba con l’arpa (?) e i suoni del mare di “Like someone in love“. Puah.

Se ritornassi indietro, mi direi stupida forte per aver snobbato dei pezzi come “Venus as a boy“, che poi scoprirei far parte della colonna sonora di Leòn (film che amerò), o “Big time sensuality” (con quel videoclip di Cristo diretto da Sednaui, dove lei è a New York, sul retro di un camion e balla) o “Violently happy” (un altro videoclip che manda letteralmente ai pazzi, questo diretto da Mondino).
Ma che volete farci… In quel periodo avevo dei gusti simili ad un abate del 1200 e tutto ciò che non si avvicinava al pop-rock era vera e propria eresia.

Poi succede il Miracolo.
Ultima track. Ultima possibilità.
Mentre sto per gettare la spugna, parte la rivalutazione totale.
Partono gli archi di “Play Dead“. Poi dei vocalizzi, delle urla d’aiuto, di qualcuno tenuto in gabbia che vuole uscire. E io smetto di respirare per qualche minuto. Mi incollo al sedile del bus e non riesco a fare altro che rimanere travolta da

Darling stop confusing me/ with your wishful thinking/ hopeful enbraces don’t you understand?/ I have to go through this/ I belong to here where no-one cares and no-one loves/ no light no air to live in/ a place called hate/ the city of fear/ I play dead it stops the hurting/ I play dead and hurting stops

La canzone continua e io ho paura di rimanerci secca. Batterie elettroniche e arrangiamenti orchestrali, ostinati. Quel ritornello cantato con rabbia e liberazione. E poi la finta dolce calma isterica delle strofe. Una dinamica killer.
La canzone finisce e io capisco che è cambiato qualcosa dentro di me.
Per un’adolescente in rotta con il mondo, incompresa, incazzata, inconsapevole di sè stessa, tutto questo sconvolge e turba assai.
Metto il repeat fino a Venezia. Scendo dal bus, faccio il Ponte degli Scalzi, la Lista di Spagna, passo a lato del Ponte delle Guglie sempre con “Play Dead” in repeat.

La giornata procede, non ricordo come.
Sta di fatto che torno a casa e faccio una cosa inusuale: copio dall’internet tutto il testo e me lo scrivo sul diarietto segreto.

(volete la foto del diarietto? Ce l’ho eh!)

E scopro che “Play Dead” è stata inserita più tardi in “Debut“, fa parte della colonna sonora di un film, “Young Americans“, e che Bjork ha avuto un po’ di difficoltà a cantare lo struggimento visto che viveva un periodo felice.

Se “Play Dead” non fosse stata inserita in “Debut“, se non avessi spinto per l’ultima volta il bottone play su quell’album, io non mi sarei mai innamorata di Bjork, il mio cuore non avrebbe smesso di battere per alcuni interminabili minuti, non mi sarei incollata alla sedia del bus in stato catatonico, io stessa forse sarei stata diversa da come sono ora.

Dunque.
Mille di questi innamoramenti.
Mille di questi “Play Dead“.
Mille di queste #unacanzone.