Dopo di te

DOPO DI TE (ex BOTTEGA NATURA)
quel reading che non ti manca
di e con Elisa Bonomo
(2016)

[la foto è di Susanna Iovene]

Non mi manca.
Più mi sforzo di capire come son potuta stare insieme a una persona 7 anni e mezzo e nel giro di due mesi vivere tranquillamente senza di lei, più non ne vengo a capo.
Forse non l’amavo veramente.
Forse perché l’avevo lasciata io.
Forse.

Le altre volte, intendo le rotture, ci son rimasta sotto dei mesi, anni. Anche con relazioni in corso. Io poi son una che con i rodimenti d’animo ci va proprio a nozze, con i pensieri ossessivi che rimangono inceppati nella mente per giorni interi, con i ricordi, con i rimestamenti.

Stavolta manco il picchio.

Me ne sto seduta nella sala d’aspetto delle Poste Italiane e penso a quanto la mia vita in questi due mesi sia stata comunque dura e impassibile con me, ma è comunque migliore senza di lei.
E mi sento crudele.
Anzi, mi sento decisamente una merda umana.
“Avanti, signorina Rover. E’ il suo turno”

Nel pomeriggio devo essere a teatro, ma il regista è in ritardo e piuttosto di starmene con le mani in mano impensierita e arrabbiata per gli affari miei, decido di andare al Grande Centro. Devo comprare dei prodotti. Ma soprattutto devo fare una cosa.

Definire Il Grande Centro un centro commerciale è riduttivo. E’ un complesso di tre piani, esteso quanto la Svezia, pieno di negozi e quant’altro.
Lei adorava andarci. I centri commerciali erano la sua passione nei weekend.

Salgo le scale mobili e comincio a sentirmi uno strano disagio addosso. Non quel sottile e familiare strato d’ansia che opprime a caso le mie giornate, ma uno strano magone che dal petto-viaggia-verso-la-gola.

Bottega Natura. Acquisti prodotti per il corpo bio.
Lei aveva una tessera fedeltà per qualsiasi cosa.
“Gli sconti, non si sa mai”
Se le aprivi il portafoglio trovavi anche la tessera della Biblioteca di Catanzaro, visitata una volta e mai ritornate.
“Metti caso che ci ritorni, hanno già il mio nominativo”
Una tessera per tutto.

Quelle cose che si fanno insieme, ormai per assodate.
Lei mette la tessera, dà il suo indirizzo di casa, arrivano gli sconti per il volantino, si decide insieme cosa comprare, si va.
Tu (io) metti il tuo numero di cellulare.
“Tanto volte la usi anche tu! Quando non sono a casa ti arriva l’sms e vai! No problema, basta che dai il mio nominativo”
Il suo nominativo, già.

E poi passa il tempo.

“Scusi, mi devo fare la tessera”. Dico alla commessa, dopo l’acquisto di acqua micellare, struccante bifasico, crema al miele, scrub al pompelmo.
“Ah ottimo, così ha il 50% di sconto sulla prima spesa”
(pausa)

Non voglio farlo. E’ veramente una cosa piccolina, ma mi fa comunque male.

[LA VOCE DELLA COMMESSA ALTA, LA VOCE MIA PIU’ BASSA]
“Fanno 30 euro”
Consegno-la carta-di credito. Non posso più rimandare. (respiro) Prendo un bel respiro.

“Posso chiederti una cosa?”
“Se posso.”
“Puoi cancellare il mio numero di cellulare associato a un’altra tessera?”
“Ah. Certo!”

La commessa entusiasta non capisce il perché di cotanta solennità e mia partecipazione emotiva alla richiesta.

“Mi basta il cognome”
“Franceschini”
“FRANCESCHIIINNN?”

(infastidita) Oltre a dirlo, anche l’imbarazzo di doverlo ripetere.

“Franceschini. Con la i finale”
“Ok… Franceschini. Di Treviso, giusto?”
“Sì” (quasi sottovoce)
“Nome?”

Il suo nome mi esce sempre pronunciato dolce, affettuoso. Come se dovessi averne cura, preservarlo dagli altri. Lo accarezzo ecco, non lo pronuncio.

“Viola”
“Eccoci. Viola. Eliminato”

ELIMINATO. (a mezza voce)
La commessa alza lo sguardo e vedi che rimane spiazzata per un attimo dalla mia espressione indecifrabile. E’ interrogativa perché non capisce come quella parola in quel momento ha un effetto stranamente molto doloroso su di me. Che prevedo ma che sorprende sempre. Anche quando esco da Bottega Natura e vedo il McDonald’s, e mi ricordo di quando per cercare di rimanere insieme dopo il primo strappo ci prendemmo un Happy Meal. O quando ci fermavamo nell’Agorà a vederci un concerto. O quando mi fece girare tutti i negozi da uomo per trovarsi una giacca taglio vivo.

IO MI RICORDO SEMPRE TUTTO. (scandito)
Non so se sia un pregio o una condanna.
Anche i luoghi hanno memoria, le cose che tocchi, i regali ricevuti, gli oggetti non saranno più gli stessi, dopo di lei.
Non è l’oggetto che cambia, è il tuo occhio che lo vedrà per sempre in maniera diversa, dopo di lei.

Ogni storia finita è una distruzione di una civiltà fatta di due persone che hanno inventato una nuova lingua, costruito nuovi modi di dire, nuove ricette, nuovi modi di vestire, nuovi mezzi di trasporto, viaggi, fotografie, canzoni.
Cammini a bordo delle macerie, scavando tra i resti che non sono bruciati.
Quelli, quelli sono i ricordi.

Torno a casa e cerco di parcheggiare l’auto.
Faccio un parcheggio a S perfetto.
“Vedi, il trucco è che devi andare dietro dritta, e poi fare manovra”

Me l’ha insegnato Lei.
Una fitta amara e dolce allo stesso tempo in gola.

E ho capito perché non mi manca.
Perché me la porto sempre dietro. E nelle cose belle lei c’è sempre.

PDV – Punti di vista

“PDV – PUNTI DI VISTA”
Un reading sul mancarsi

di e con Elisa Bonomo (2016)

[NOTA: Quando ero piccola ero ossessionata dal fatto che forse non avrei mai incontrato la mia anima gemella. Perché le persone che si sposano abitano tutte vicine? E se la mia anima gemella fosse in Brasile e non lo sapessi? Esiste davvero l’amore a prima vista? Come faccio a capirlo?
Lo capisci, bestiola. Buona lettura!]

[La foto in evidenza è di Claudia Calderone]

Aveva letto da qualche parte che la musica classica diminuiva le aggressioni nei luoghi pubblici. L’articolo sosteneva che le rapine in Stazione Centrale erano scese di almeno la metà da quando avevano messo un pianoforte a coda fuori dal Binario 1, proprio di fronte al bar dove Lei serviva caffè.

Ne vedeva di gente sedersi al pianoforte. Li scorgeva solo di spalle, ogni giorno. Non potendoli vedere in faccia, aveva cominciato a riconoscere il tocco forestiero del viaggiatore occasionale da quello del suonatore abituale. A orecchio sapeva distinguere la mano nervosa del Vecchio che strimpellava qualche ballata popolare, del Bambino impacciato alle prese col primo Mozart, della Signora Ingioiellata che puntuale si presentava alle una di ogni giorno.

Ma stavolta era diverso.

Si era seduto e sembrava nervoso, in silenzio. Per un momento parve alzare la testa.

Poi iniziò.

Ci si può innamorare così impunemente di un paio di mani?
Così spudoratamente di una schiena?
Così improvvisamente di una nuca?

Sì.

Sembrava tutto così semplice, e al tempo stesso inconcepibile.

Amava suo marito, ma se in quel momento Lui si fosse alzato e le avesse chiesto di scappare con Lei, Lei… l’avrebbe seguito.

*******

Stava tornando dall’ultima tournée in Brasile.

Tutto gli sembrava ormai meccanico, definito, senza segreti.

“Il Virtuoso Polacco”.

Come poteva essere che la Musica per lui fosse ormai tutta scritta? Senza alcun tipo di sbavature, emozioni incontrollate. Senza più un briciolo di libertà?

Come poteva essere così tutto prevedibile, stancante, senza un’anima d’istinto?

Ad un tratto vide un pianoforte. In mezzo alla stazione.
E gli sembrò bello per una volta trovarsi fuori posto.

Lo sgabello era vuoto. Si avvicinò.

Sistemò la seduta e si sedette.

Prima di toccare il pedale espressione con il piede destro e appoggiare la mano sinistra su un do diesis minore, avvertì qualcosa alle sue spalle.

Intorno a Lui qualcosa vibrava.

Alzò per un attimo la testa.

Capì che Lei era lì. E lo stava ascoltando.

Sole e vento al tempo stesso.

Suonava e con la coda dell’occhio poteva intuire la sua sagoma, nulla di più. Più suonava e più si rivelavano il taglio dei suoi occhi, il tono della sua voce, le fossette che le si disegnavano a ogni suo sorriso, lo scroscio della sua risata.

E capì che l’amava, e che ormai niente sarebbe stato lo stesso.

Esisteva. E Lui l’aveva trovata.

Suonava come non aveva mai fatto in quegli ultimi anni, come se il tempo fosse lungo, eterno, e capì e ritrovò la ragione del perché aveva imparato a suonare, per rendere il tempo uno spazio fatto di pù mondi possibili a clessidre trasversali dove potersi rifugiare, dove c’erano Lui e Lei per uno spazio infinito, fatto solo di uno scopo essenziale, fatto di suoni, parole e l’ascolto di Lei.

Si incontrarono e si amarono lungo passi neri e passi bianchi, circondati un cielo a scacchi, lungo un fiume infinito.

Era proprio Lei, al suo fianco, l’Ascolto, che rendeva la musica ancora più bella, la passione sui tasti ancora più vivida, più emozionante.

*******

“Questo cappuccino arriva sì o no?”

Non si era resa conto che stava con il bricco del latte caldo in mano e lo stava ancora fissando.

Ma ai clienti poco importa di un amore appena sbocciato. Lo stava aspettando, in attesa di incontrare il suo sguardo, era l’unica cosa che poteva fare.

“Ah sì, ecco. Mi scusi”

“3 cappucci, poca schiuma, non troppo caldi eh, che l’altra volta mi sono pure scottata, giovane

3 piattini, cucchiaini, due giri di macchina, vapore, caffè pronti, schiuma. Poca.

“Pronti”

(Non andartene-non andartene-non andartene-non andartene)

Alzò la testa. E Lui non c’era più.

Siamo strumenti, come queste corde di pianoforte. Vibriamo insieme nella stessa precisa frequenza.

Ne convenne che l’amore era una questione di tempi.

“Merda. Sono veramente fottuta”

******

Sapeva che doveva finire, andarsene. Ma prima doveva vederla, voleva incontrare il suo sguardo, era l’unica cosa che poteva fare.

L’ultimo accordo tenuto, l’applauso degli astanti. E poi i suoi occhi si diressero verso di Lei.

Stava girata verso la macchina dei caffè.

Siamo strumenti, come queste corde di pianoforte. Vibriamo insieme nella stessa precisa frequenza.

“Maestro, maestro! Che cosa sta facendo ancora qui? Il taxi l’aspetta fuori!”

Sostenne più che poté lo sguardo. Finché la perse, trascinato fuori dal suo assistente.

Ne convenne che l’amore era una questione di tempi.

“Merda. Sono veramente fottuto”