Dopo di te

DOPO DI TE (ex BOTTEGA NATURA)
quel reading che non ti manca
di e con Elisa Bonomo
(2016)

[la foto è di Susanna Iovene]

Non mi manca.
Più mi sforzo di capire come son potuta stare insieme a una persona 7 anni e mezzo e nel giro di due mesi vivere tranquillamente senza di lei, più non ne vengo a capo.
Forse non l’amavo veramente.
Forse perché l’avevo lasciata io.
Forse.

Le altre volte, intendo le rotture, ci son rimasta sotto dei mesi, anni. Anche con relazioni in corso. Io poi son una che con i rodimenti d’animo ci va proprio a nozze, con i pensieri ossessivi che rimangono inceppati nella mente per giorni interi, con i ricordi, con i rimestamenti.

Stavolta manco il picchio.

Me ne sto seduta nella sala d’aspetto delle Poste Italiane e penso a quanto la mia vita in questi due mesi sia stata comunque dura e impassibile con me, ma è comunque migliore senza di lei.
E mi sento crudele.
Anzi, mi sento decisamente una merda umana.
“Avanti, signorina Rover. E’ il suo turno”

Nel pomeriggio devo essere a teatro, ma il regista è in ritardo e piuttosto di starmene con le mani in mano impensierita e arrabbiata per gli affari miei, decido di andare al Grande Centro. Devo comprare dei prodotti. Ma soprattutto devo fare una cosa.

Definire Il Grande Centro un centro commerciale è riduttivo. E’ un complesso di tre piani, esteso quanto la Svezia, pieno di negozi e quant’altro.
Lei adorava andarci. I centri commerciali erano la sua passione nei weekend.

Salgo le scale mobili e comincio a sentirmi uno strano disagio addosso. Non quel sottile e familiare strato d’ansia che opprime a caso le mie giornate, ma uno strano magone che dal petto-viaggia-verso-la-gola.

Bottega Natura. Acquisti prodotti per il corpo bio.
Lei aveva una tessera fedeltà per qualsiasi cosa.
“Gli sconti, non si sa mai”
Se le aprivi il portafoglio trovavi anche la tessera della Biblioteca di Catanzaro, visitata una volta e mai ritornate.
“Metti caso che ci ritorni, hanno già il mio nominativo”
Una tessera per tutto.

Quelle cose che si fanno insieme, ormai per assodate.
Lei mette la tessera, dà il suo indirizzo di casa, arrivano gli sconti per il volantino, si decide insieme cosa comprare, si va.
Tu (io) metti il tuo numero di cellulare.
“Tanto volte la usi anche tu! Quando non sono a casa ti arriva l’sms e vai! No problema, basta che dai il mio nominativo”
Il suo nominativo, già.

E poi passa il tempo.

“Scusi, mi devo fare la tessera”. Dico alla commessa, dopo l’acquisto di acqua micellare, struccante bifasico, crema al miele, scrub al pompelmo.
“Ah ottimo, così ha il 50% di sconto sulla prima spesa”
(pausa)

Non voglio farlo. E’ veramente una cosa piccolina, ma mi fa comunque male.

[LA VOCE DELLA COMMESSA ALTA, LA VOCE MIA PIU’ BASSA]
“Fanno 30 euro”
Consegno-la carta-di credito. Non posso più rimandare. (respiro) Prendo un bel respiro.

“Posso chiederti una cosa?”
“Se posso.”
“Puoi cancellare il mio numero di cellulare associato a un’altra tessera?”
“Ah. Certo!”

La commessa entusiasta non capisce il perché di cotanta solennità e mia partecipazione emotiva alla richiesta.

“Mi basta il cognome”
“Franceschini”
“FRANCESCHIIINNN?”

(infastidita) Oltre a dirlo, anche l’imbarazzo di doverlo ripetere.

“Franceschini. Con la i finale”
“Ok… Franceschini. Di Treviso, giusto?”
“Sì” (quasi sottovoce)
“Nome?”

Il suo nome mi esce sempre pronunciato dolce, affettuoso. Come se dovessi averne cura, preservarlo dagli altri. Lo accarezzo ecco, non lo pronuncio.

“Viola”
“Eccoci. Viola. Eliminato”

ELIMINATO. (a mezza voce)
La commessa alza lo sguardo e vedi che rimane spiazzata per un attimo dalla mia espressione indecifrabile. E’ interrogativa perché non capisce come quella parola in quel momento ha un effetto stranamente molto doloroso su di me. Che prevedo ma che sorprende sempre. Anche quando esco da Bottega Natura e vedo il McDonald’s, e mi ricordo di quando per cercare di rimanere insieme dopo il primo strappo ci prendemmo un Happy Meal. O quando ci fermavamo nell’Agorà a vederci un concerto. O quando mi fece girare tutti i negozi da uomo per trovarsi una giacca taglio vivo.

IO MI RICORDO SEMPRE TUTTO. (scandito)
Non so se sia un pregio o una condanna.
Anche i luoghi hanno memoria, le cose che tocchi, i regali ricevuti, gli oggetti non saranno più gli stessi, dopo di lei.
Non è l’oggetto che cambia, è il tuo occhio che lo vedrà per sempre in maniera diversa, dopo di lei.

Ogni storia finita è una distruzione di una civiltà fatta di due persone che hanno inventato una nuova lingua, costruito nuovi modi di dire, nuove ricette, nuovi modi di vestire, nuovi mezzi di trasporto, viaggi, fotografie, canzoni.
Cammini a bordo delle macerie, scavando tra i resti che non sono bruciati.
Quelli, quelli sono i ricordi.

Torno a casa e cerco di parcheggiare l’auto.
Faccio un parcheggio a S perfetto.
“Vedi, il trucco è che devi andare dietro dritta, e poi fare manovra”

Me l’ha insegnato Lei.
Una fitta amara e dolce allo stesso tempo in gola.

E ho capito perché non mi manca.
Perché me la porto sempre dietro. E nelle cose belle lei c’è sempre.

Affinità e divergenze tra me e Proust (Marcel)

AFFINITA’ E DIVERGENZE TRA ME E PROUST (MARCEL)
(2011)

Fa freddo. Molto freddo. Ho un maglione sopra un altro maglione, il cappotto, la sciarpa e il cappello da neve e non riesco a scaldarmi.

Saccheggio tutte le coperte qua in casa. Ancora freddo. D’altronde cosa voglio pretendere, dopotutto.

Ci hanno tolto il riscaldamento da due mesi. Non pagavamo il riscaldamento, le bollette, non rispondevamo ai richiami, le lettere di sollecito non stavano nemmeno più nella cassetta della posta.

Non ci davamo quasi più bada, oramai. Chi ci chiudeva la luce, il gas, l’acqua calda, il telefono…

E noi niente.

Zitti, in silenzio. Fingevamo di essere partiti, di non essere in casa, facendo meno rumore possibile durante il giorno, tirando l’acqua del bagno una volta sola, uscendo prestissimo o tardissimo solo per lo stretto indispensabile.

Sembravamo dei topi, delle cavie da laboratorio. Mi sentivo prigioniero in casa mia: pieno zeppo di tempo libero sì, ma con la pancia costantemente vuota, e per quanto aprissi o chiudessi le ante dello scaffale in cucina non è il cibo apparisse miracolosamente. Vuoto era e vuoto rimaneva.

Chissà come si sentiva Proust quando decise di chiudersi volontariamente nella residenza di Boulevard Haussmann, a scrivere di notte Alla ricerca del tempo perduto. A letto, in una stanza foderata di sughero per isolarsi acusticamente. Chissà se rimaneva a letto per stare al caldo, cagionevole com’era.

Fuori fa freddo, è piovuto da poco, ma non credo che ci sia molta differenza con la temperatura qui dentro. Tanto vale uscire allora. Vengo investito dalle luci, dalla gente, dalla vita. L’uscio della mia casa sta proprio sulla strada, una delle vie più trafficate della città, e assieme al vociare dei passanti sento il rumore delle auto sull’asfalto bagnato, quest’odore così inebriante, di lavato. Di sistemato.

L’odore del dopo-pioggia è inconfondibile, uguale in ogni città in cui mi sono trovato, forse un po’ più umido, forse un po’ più freddo alle mie narici a seconda della stagione.

Qui è freddo intenso, rinvigorente. Se fossi Clark Gable in Accadde una notte direi igienico e corroborante. Eppure è una delle poche cose che mi dà calma e pace, come se tutto nella mia vita si fosse aggiustato.

E allora cammino, e per un po’ mi dimentico di me, dei miei debiti, del mio portafogli sempre vuoto, di Fren, del buco nero petrolio che scende sopra ai miei sogni.

Cammino sopra la stazione ferroviaria, sotto il traffico delle automobili, i loro anabbaglianti puntati, i loro motori assordanti in coda ai semafori. La stazione, la scritta blu “PADOVA”, le persone che guardano il tabellone del treno al binario, lo stridore dei treni. Io, appoggiato ai pannelli fonoassorbenti con le cicche attaccate alla ringhiera osservo tutto…

E non sento più nulla…

Fren…

Quante cose diamo per scontate nella nostra vita. Io ho dato per scontato la mia eterosessualità. Come Proust.

Fren è un uomo, io sono un uomo.

Ogni tanto mi dimentico di amare un uomo, pochi lo sanno. Basterebbe un motivo futile e potrei mandare all’aria questa relazione. Sarebbe finita e nessuno se ne accorgerebbe. Proust non lo disse nemmeno alla madre.

Giù dal cavalcavia l’entrata della stazione, il Blockbuster, il circolo scommesse e il Mc Donald’s.

Mi sono così abituato a non guardare le persone in faccia che non le vedo più. Mi stanno attorno ma non esistono, sono una nube grigia che mi circonda, una nebbia fine che respiro ma in cui vado oltre.

Butto un’occhiata dentro al fast-food: ci saranno cinque o sei persone. Vista l’ora non mi stupisco. L’arredamento colorato, dalle sedie, ai tavoli, al bancone, sbatte con la luce piatta e uniforme dei neon. Chissà se Marcel Proust avesse addentato un cheeseburger al posto della madeleine si sarebbe ricordato con piacere della sua infanzia e della sua zia malata. Forse gli avrebbe dato solo una certa acidità e una strana assuefazione. O forse non si sarebbe ricordato niente, come un dolore fortissimo che si dimentica. Come i dolori di un parto. Come i dolori di un amore finito male. Malissimo.
Tutto merito dell’ossitocina. Ha gli stessi effetti dell’alcool.

Nina e Igor mi sembrano tanto lontani, eppure è passato solo un anno. Eravamo veramente felici noi tre? Eravamo veramente una stessa persona? Eravamo veramente tanto simili e sensibili o vivevamo semplicemente come funghi, in simbiosi?

Era amore o era solo una suggestione?

Era incredibile come riuscissimo a fare cose diversissime tutte insieme. Nina recitava, io scrivevo e Igor dipingeva il nostro magnifico quadretto familiare.

Già.

Il Corso principale è una gola arrossata, dei bronchi intasati di catarro. E’ una bocca che tossisce e borbotta, che si lamenta, che mugugna. Io guardo le vetrine con gli addobbi di Natale. Tre quarti dei negozi vendono cose che non mi posso permettere.

Dicono che gli artisti lavorano meglio in povertà. Non è vero. Quando non hai niente sei troppo impegnato a sopravviverti. A tirare avanti, mangiare, bere, dormire. Stare al caldo. Al limite, se e proprio se, scopare ogni tanto.

Una volta era più semplice: per essere un grande scrittore o interrompevi gli studi in Legge o morivi di tisi. Ma Proust comunque era ricco di famiglia.

E’ finita tra noi. Non poteva andare avanti e lo sapevamo tutti e tre. Piano piano siete diventati veleno. Che ingoiavo ogni giorno con il caffè, come Ingrid Bergman in Notorius. Vi ingoiavo ogni giorno e mi sentivo peggio. Io ero ossessionato da voi, dai vostri fantasmi e mi sentivo macero, violento, irascibile e perennemente ubriaco.

Bisogna veramente stare male per scrivere bene? Ora che ho Fren non ho più la mia arte. Eppure mi ama più di voi. Mi porta i cibo, mi dà i vestiti. Mi ama.

Perché devo aspettare che un’altra voragine mi inghiotta per salvarmi all’ultimo e raccontarlo al mondo? Perché la gente ama le mie storie, frutto di infelicità cronica e non riesco a raccontare il bene di Fren?

E’ come se tutti i miei traumi, le mie paure, i miei fantasmi fossero di dominio pubblico, mentre le mie gioie sono soltanto mie. Una questione privata tra me e Fren.

Voi mi amavate, lo so. Ma nonostante tutto non ero mai abbastanza, volevate sempre di più, sempre di più, fino a spezzarmi le gambe, condurmi all’abisso.

Fren mi ha trovato steso riverso sulla moquette zozza del bagno, condita da torrentelli di Jack Daniel’s che scendevano copiosi dalla mia mano ormai senza alcuna presa, sulla mia testa, al cotone su piastrella.

Fren mi ha lavato. Mi ha abbracciato. Mi ha baciato. Come Cary Grant con Ingrid Bergman.

“Ivan Dallara?”

“Seh?”

L’ennesimo studentello di Lettere. Nonostante sia vestito come un barbone ho sempre un certo charme.

“Una sigaretta?”

Me la offre esitante, con gli occhi grandi quanto tutti il volto. Lo guardo storto. Tanto vale accettare tutto, in tempi di magra.

“Seh”.

Me la accende, prende fiato mentre cerca di farsi coraggio nel pronunciare la domanda che mi fanno da sempre. Continuamente. In tv. Nei giornali. Su internet. Nei forum. Nella mia casella di posta elettronica. Nella segreteria telefonica. Pure su un numero di Cronaca Vera. Che ruba il sonno ai miei fan. Da circa tre anni.

“Sta scrivendo qualcosa di nuovo? Quando esce il nuovo libro?”

Vorrei rispondere a questo stronzetto che non ho niente da dire. E quando un artista non ha niente da dire è meglio che stia in silenzio, altrimenti scrive solo una marea di cavolate pronte per la carta straccia. O al massimo giuste per il pomeriggio di una trasmissione generalista. Che mi sto rimettendo da una situazione complicata e da una grande delusione d’amore e ci vuole un po’ di tempo, si sa, per questo genere di cose. E invece continuo a fumarmi la mia paglia tranquillamente, gli regalo un bel sorriso e gli rispondo:

“Vedi. E’ la nostra immaginazione la causa dell’amore, non l’altra persona. Lo diceva Marcel Proust”.

PDV – Punti di vista

“PDV – PUNTI DI VISTA”
Un reading sul mancarsi

di e con Elisa Bonomo (2016)

[NOTA: Quando ero piccola ero ossessionata dal fatto che forse non avrei mai incontrato la mia anima gemella. Perché le persone che si sposano abitano tutte vicine? E se la mia anima gemella fosse in Brasile e non lo sapessi? Esiste davvero l’amore a prima vista? Come faccio a capirlo?
Lo capisci, bestiola. Buona lettura!]

[La foto in evidenza è di Claudia Calderone]

Aveva letto da qualche parte che la musica classica diminuiva le aggressioni nei luoghi pubblici. L’articolo sosteneva che le rapine in Stazione Centrale erano scese di almeno la metà da quando avevano messo un pianoforte a coda fuori dal Binario 1, proprio di fronte al bar dove Lei serviva caffè.

Ne vedeva di gente sedersi al pianoforte. Li scorgeva solo di spalle, ogni giorno. Non potendoli vedere in faccia, aveva cominciato a riconoscere il tocco forestiero del viaggiatore occasionale da quello del suonatore abituale. A orecchio sapeva distinguere la mano nervosa del Vecchio che strimpellava qualche ballata popolare, del Bambino impacciato alle prese col primo Mozart, della Signora Ingioiellata che puntuale si presentava alle una di ogni giorno.

Ma stavolta era diverso.

Si era seduto e sembrava nervoso, in silenzio. Per un momento parve alzare la testa.

Poi iniziò.

Ci si può innamorare così impunemente di un paio di mani?
Così spudoratamente di una schiena?
Così improvvisamente di una nuca?

Sì.

Sembrava tutto così semplice, e al tempo stesso inconcepibile.

Amava suo marito, ma se in quel momento Lui si fosse alzato e le avesse chiesto di scappare con Lei, Lei… l’avrebbe seguito.

*******

Stava tornando dall’ultima tournée in Brasile.

Tutto gli sembrava ormai meccanico, definito, senza segreti.

“Il Virtuoso Polacco”.

Come poteva essere che la Musica per lui fosse ormai tutta scritta? Senza alcun tipo di sbavature, emozioni incontrollate. Senza più un briciolo di libertà?

Come poteva essere così tutto prevedibile, stancante, senza un’anima d’istinto?

Ad un tratto vide un pianoforte. In mezzo alla stazione.
E gli sembrò bello per una volta trovarsi fuori posto.

Lo sgabello era vuoto. Si avvicinò.

Sistemò la seduta e si sedette.

Prima di toccare il pedale espressione con il piede destro e appoggiare la mano sinistra su un do diesis minore, avvertì qualcosa alle sue spalle.

Intorno a Lui qualcosa vibrava.

Alzò per un attimo la testa.

Capì che Lei era lì. E lo stava ascoltando.

Sole e vento al tempo stesso.

Suonava e con la coda dell’occhio poteva intuire la sua sagoma, nulla di più. Più suonava e più si rivelavano il taglio dei suoi occhi, il tono della sua voce, le fossette che le si disegnavano a ogni suo sorriso, lo scroscio della sua risata.

E capì che l’amava, e che ormai niente sarebbe stato lo stesso.

Esisteva. E Lui l’aveva trovata.

Suonava come non aveva mai fatto in quegli ultimi anni, come se il tempo fosse lungo, eterno, e capì e ritrovò la ragione del perché aveva imparato a suonare, per rendere il tempo uno spazio fatto di pù mondi possibili a clessidre trasversali dove potersi rifugiare, dove c’erano Lui e Lei per uno spazio infinito, fatto solo di uno scopo essenziale, fatto di suoni, parole e l’ascolto di Lei.

Si incontrarono e si amarono lungo passi neri e passi bianchi, circondati un cielo a scacchi, lungo un fiume infinito.

Era proprio Lei, al suo fianco, l’Ascolto, che rendeva la musica ancora più bella, la passione sui tasti ancora più vivida, più emozionante.

*******

“Questo cappuccino arriva sì o no?”

Non si era resa conto che stava con il bricco del latte caldo in mano e lo stava ancora fissando.

Ma ai clienti poco importa di un amore appena sbocciato. Lo stava aspettando, in attesa di incontrare il suo sguardo, era l’unica cosa che poteva fare.

“Ah sì, ecco. Mi scusi”

“3 cappucci, poca schiuma, non troppo caldi eh, che l’altra volta mi sono pure scottata, giovane

3 piattini, cucchiaini, due giri di macchina, vapore, caffè pronti, schiuma. Poca.

“Pronti”

(Non andartene-non andartene-non andartene-non andartene)

Alzò la testa. E Lui non c’era più.

Siamo strumenti, come queste corde di pianoforte. Vibriamo insieme nella stessa precisa frequenza.

Ne convenne che l’amore era una questione di tempi.

“Merda. Sono veramente fottuta”

******

Sapeva che doveva finire, andarsene. Ma prima doveva vederla, voleva incontrare il suo sguardo, era l’unica cosa che poteva fare.

L’ultimo accordo tenuto, l’applauso degli astanti. E poi i suoi occhi si diressero verso di Lei.

Stava girata verso la macchina dei caffè.

Siamo strumenti, come queste corde di pianoforte. Vibriamo insieme nella stessa precisa frequenza.

“Maestro, maestro! Che cosa sta facendo ancora qui? Il taxi l’aspetta fuori!”

Sostenne più che poté lo sguardo. Finché la perse, trascinato fuori dal suo assistente.

Ne convenne che l’amore era una questione di tempi.

“Merda. Sono veramente fottuto”

Beva, beva, mi raccomando beva

“BEVA, BEVA, BEVA. MI RACCOMANDO, BEVA”
un READING CONVALESCENTE
di e con Elisa Bonomo (2016)

[Nota a margine: Ho scritto questo testo nel 2016 dopo una mononucleosi piuttosto aggressiva. Per un mese la mia giornata era scandita dall’assunzione di farmaci. Il periodo e la visione compulsiva di “Pomeriggio 5” sul divano di casa hanno fatto nascere la canzone più cattiva di Sinusoide, “Maleducata”]

(stentorea)

Tachipirina: 1000 grammi compresse, Paracetamolo, massimo 3 al giorno una ogni 8 ore.
Una compressa. Un bicchiere d’acqua. Afferro il bicchiere e bevo. Bevo perché so che anche oggi devo idratare il mio organismo.

(Pausa)

Ore 7.00: Lansoprazolo Sandoz BV, 30 mg, capsule rigide gastroresistenti. Da prendere per 10 giorni, a digiuno, appena sveglia, prima di tutti gli altri medicinali. Serve a proteggere lo stomaco.

Ore 9.00: Prima misurazione febbre con Nestlè Lc1 Vital. Un miliardo di fermenti viviii! (entusiasta). Con Vitamina B6 che aiuta a ridurre
– la stanchezza
– la fatica

DUE BOTTIGLIETTE GRATIS CON L’ESCLUSIVO LACTOBACILLUS JOHNSONII LA1!!!

(Pausa)

Nota a margine: boicotto Nestlé e tutti i prodotti affini da quando ho 18 anni perché ho letto NoLogo e c’era la storia del latte contaminato.
Ho pure fatto una tesina che era un misto tra inchiesta e “V per V Vendetta” in salsa teen e ho preso 10.
E adesso l’unica cosa proibitiva che il mio stomaco accetta è la mia acerrima nemesi adolescenziale che in questo momento mi sta facendo un grandissimo “SUCAAA!“, dall’alto della sua linguaccia da staccare in alluminio.

Maledetto karma.

Ore 10.00 mattina: Macladin 500 mg, compresse rivestite claritomicina. 2 al giorno ogni 12 ore per sette giorni. Ho preso il farmaco generico perché più economico e soprattutto perché il farmacista mi fa “guardi ha lo stesso principio attivo dell’altro, la differenza è il prezzo” e allora eccoti qui i miei 2 euro. E io felice esco, con i miei soldi in tasca, con la consapevolezza di aver gabbato i Big Pharma.

(Pausa, seria)

E invece no.
Se mia madre al posto dell’Imigran prende IL (sottolinea con l’indice destro) farmaco generico, col picchio che le passa l’emicrania.

“Effettivamente il principio è attivo è un po’ meno. Nel generico”, le ha confidato il farmacista, messo alle strette.

NESSUNO UCCELLA MIA MADRE. Nemmeno la medicina sommaria.
Lei sa.
Ma te lo dice dopo.

Ore 10.15: N°2 fette di patata da poggiarsi su occhi gonfi per 15 minuti. Aiuta a sgonfiare.
Ore 10.30: Rimuovere n°2 fette di patata. Notare se miglioramenti.
Ore 10.30 e 15 secondi di orologio smartphone: No.

Ore 12.00: Seconda misurazione febbre featuring Fermenti lattici Lactoflorene PLUS Fermenti Lattici Vivi ad azione Probiotica con vitamine del gruppo 8 e Zinco senza glutine e lattosio.
E su questo, niente da dire. (alzando le mani, scuotendo il capo)

Ore 13:00: Assunzione gelato fresco al limone, thè, succo, acqua…bere bere bere sempre almeno 1 litro, un litr ‘e mezzo di acqua al giorno perché devi mantenerti idratata e in più combatti l’astenia primaverile, lo dicevano ieri ai Fatti Vostri e se lo dice Magalli io ci credo!

Ore 14:00: Gargarismo dopo pasto con un cucchiaio di sale grosso e/o bicarbonato di sodio e acqua. Sciacquare.
Il Bicarbonato ha un sacco di proprietà sapete. Usatelo per la lavatrice, per pulire, per sgrassare, per i capelli, per fargli gli scrubs face&body, per i denti…

Ma il bicarbonato ha purtroppo un annoso problema di autostima. Nonostante le sue MOLTEPLICI CAPACITA’, si è sempre sottovalutato molto.
Perché si fa pagare poco.
Ore 14:15: Riflessione sul fatto che io e il bicarbonato in fondo non siam poi così diversi.

Ore 15:00: Terza Misurazione ossessiva compulsiva febbre. Quando sale mi ricorda l’applausometro di “La Sai L’ultima?“. Vorrei essere Pamela Prati. Ma non quella di Mark Caltagirone. Quella con Pippo Franco. Ne evinco che se penso liberamente a Pippo Franco in un casuale giorno di Aprile forse la mia febbre è abbastanza alta.
Ore 15:15: E se l’attesa della prossima misurazione della febbre fosse essa stessa la misurazione della febbre?

Ore 17:00: Visita parente e/o affine che sicuramente sa più di te sul tuo stato di salute, sul fatto che ti trascuri, sul fatto che l’omeopatia è meglio e la naturopatia dice di più, “hai mai pensato alla meditazione?”, non ti rispetti, che ti devi fermare, che non hai pazienza, che non ti curi abbastanza, che non hai fatto i controlli giusti, che c’è un sacco di gente che ha la tua stessa malattia… forse è in giro, che non hai ascoltato il tuo corpo, eh che un po’ te lo meriti… (alzando la voce, urlando scocciata) E allora ammalati tu parente, toh, ammalati, divertiti un po’ anche tu… Cosa vieni a fare qua se non a dirmi cose che non so già… (breve pausa) E ringrazia Dio che oggi non ti posso dire quello che penso perché ho la giornata veramente piena!

Ore 19:00: Zirtec 10 mg, compresse rivestite con film. Cetizina dicloridrato. Una al dì, per 14 giorni, e mi raccomando dieta in bianco perché dobbiamo ridurre il rischio allergeni e di solito si parte dagli alimenti quindi quasi tutto al vapore, poco sale, poco olio, poco tutto, riso sì, verdura e frutta quanta ne vuole, attenzione carni rosse e assolutamente
NO UOVA
NO CIOCCOLATO
NO INSACCATI
NO LATTICINI

(qui procede come fosse un dialogo a due voci)
(abbattuta) “Se mi diceva ‘Astinenza sessuale per un mese ero più contenta” (accondiscendente) “Sì, ma almeno la Zirtec la può assumere sempre alla stessa ora”

(breve pausa)

“Dottore, ma la febbre non mi scende”
“Ok allora” (segue lista)
Ore 19:00: Deltacortene. 25 mg compresse. Prednisone. 10 compresse. A stomaco pieno. I primi 5 giorni pastiglia intera, i secondi cinque giorni mezza pastiglia. Ma continui a prendere gli antibiotici, perché oltre a essere virale potrebbe comunque esserci qualcosa di batterico. Cosa mi combina, Bonomo! Beva, beva, beva sempre che il cortisone deve starsene sul suo corpo ora ma non per troppo. Quindi mi raccomando, Beva!
Dalle ore 20:00 alle ore 21:00: BEVO.

Ore 23:00: Mi sono dotata di due termometri, uno elettronico a bip e l’altro a mercurio che infilo nello stesso momento nelle due ascelle per creare media, mediana e moda dei risultati.

Ore 24:00: Che vita di merda.
Di merda, ma ben idratata.