AFFINITA’ E DIVERGENZE TRA ME E PROUST (MARCEL)
(2011)

Fa freddo. Molto freddo. Ho un maglione sopra un altro maglione, il cappotto, la sciarpa e il cappello da neve e non riesco a scaldarmi.

Saccheggio tutte le coperte qua in casa. Ancora freddo. D’altronde cosa voglio pretendere, dopotutto.

Ci hanno tolto il riscaldamento da due mesi. Non pagavamo il riscaldamento, le bollette, non rispondevamo ai richiami, le lettere di sollecito non stavano nemmeno più nella cassetta della posta.

Non ci davamo quasi più bada, oramai. Chi ci chiudeva la luce, il gas, l’acqua calda, il telefono…

E noi niente.

Zitti, in silenzio. Fingevamo di essere partiti, di non essere in casa, facendo meno rumore possibile durante il giorno, tirando l’acqua del bagno una volta sola, uscendo prestissimo o tardissimo solo per lo stretto indispensabile.

Sembravamo dei topi, delle cavie da laboratorio. Mi sentivo prigioniero in casa mia: pieno zeppo di tempo libero sì, ma con la pancia costantemente vuota, e per quanto aprissi o chiudessi le ante dello scaffale in cucina non è il cibo apparisse miracolosamente. Vuoto era e vuoto rimaneva.

Chissà come si sentiva Proust quando decise di chiudersi volontariamente nella residenza di Boulevard Haussmann, a scrivere di notte Alla ricerca del tempo perduto. A letto, in una stanza foderata di sughero per isolarsi acusticamente. Chissà se rimaneva a letto per stare al caldo, cagionevole com’era.

Fuori fa freddo, è piovuto da poco, ma non credo che ci sia molta differenza con la temperatura qui dentro. Tanto vale uscire allora. Vengo investito dalle luci, dalla gente, dalla vita. L’uscio della mia casa sta proprio sulla strada, una delle vie più trafficate della città, e assieme al vociare dei passanti sento il rumore delle auto sull’asfalto bagnato, quest’odore così inebriante, di lavato. Di sistemato.

L’odore del dopo-pioggia è inconfondibile, uguale in ogni città in cui mi sono trovato, forse un po’ più umido, forse un po’ più freddo alle mie narici a seconda della stagione.

Qui è freddo intenso, rinvigorente. Se fossi Clark Gable in Accadde una notte direi igienico e corroborante. Eppure è una delle poche cose che mi dà calma e pace, come se tutto nella mia vita si fosse aggiustato.

E allora cammino, e per un po’ mi dimentico di me, dei miei debiti, del mio portafogli sempre vuoto, di Fren, del buco nero petrolio che scende sopra ai miei sogni.

Cammino sopra la stazione ferroviaria, sotto il traffico delle automobili, i loro anabbaglianti puntati, i loro motori assordanti in coda ai semafori. La stazione, la scritta blu “PADOVA”, le persone che guardano il tabellone del treno al binario, lo stridore dei treni. Io, appoggiato ai pannelli fonoassorbenti con le cicche attaccate alla ringhiera osservo tutto…

E non sento più nulla…

Fren…

Quante cose diamo per scontate nella nostra vita. Io ho dato per scontato la mia eterosessualità. Come Proust.

Fren è un uomo, io sono un uomo.

Ogni tanto mi dimentico di amare un uomo, pochi lo sanno. Basterebbe un motivo futile e potrei mandare all’aria questa relazione. Sarebbe finita e nessuno se ne accorgerebbe. Proust non lo disse nemmeno alla madre.

Giù dal cavalcavia l’entrata della stazione, il Blockbuster, il circolo scommesse e il Mc Donald’s.

Mi sono così abituato a non guardare le persone in faccia che non le vedo più. Mi stanno attorno ma non esistono, sono una nube grigia che mi circonda, una nebbia fine che respiro ma in cui vado oltre.

Butto un’occhiata dentro al fast-food: ci saranno cinque o sei persone. Vista l’ora non mi stupisco. L’arredamento colorato, dalle sedie, ai tavoli, al bancone, sbatte con la luce piatta e uniforme dei neon. Chissà se Marcel Proust avesse addentato un cheeseburger al posto della madeleine si sarebbe ricordato con piacere della sua infanzia e della sua zia malata. Forse gli avrebbe dato solo una certa acidità e una strana assuefazione. O forse non si sarebbe ricordato niente, come un dolore fortissimo che si dimentica. Come i dolori di un parto. Come i dolori di un amore finito male. Malissimo.
Tutto merito dell’ossitocina. Ha gli stessi effetti dell’alcool.

Nina e Igor mi sembrano tanto lontani, eppure è passato solo un anno. Eravamo veramente felici noi tre? Eravamo veramente una stessa persona? Eravamo veramente tanto simili e sensibili o vivevamo semplicemente come funghi, in simbiosi?

Era amore o era solo una suggestione?

Era incredibile come riuscissimo a fare cose diversissime tutte insieme. Nina recitava, io scrivevo e Igor dipingeva il nostro magnifico quadretto familiare.

Già.

Il Corso principale è una gola arrossata, dei bronchi intasati di catarro. E’ una bocca che tossisce e borbotta, che si lamenta, che mugugna. Io guardo le vetrine con gli addobbi di Natale. Tre quarti dei negozi vendono cose che non mi posso permettere.

Dicono che gli artisti lavorano meglio in povertà. Non è vero. Quando non hai niente sei troppo impegnato a sopravviverti. A tirare avanti, mangiare, bere, dormire. Stare al caldo. Al limite, se e proprio se, scopare ogni tanto.

Una volta era più semplice: per essere un grande scrittore o interrompevi gli studi in Legge o morivi di tisi. Ma Proust comunque era ricco di famiglia.

E’ finita tra noi. Non poteva andare avanti e lo sapevamo tutti e tre. Piano piano siete diventati veleno. Che ingoiavo ogni giorno con il caffè, come Ingrid Bergman in Notorius. Vi ingoiavo ogni giorno e mi sentivo peggio. Io ero ossessionato da voi, dai vostri fantasmi e mi sentivo macero, violento, irascibile e perennemente ubriaco.

Bisogna veramente stare male per scrivere bene? Ora che ho Fren non ho più la mia arte. Eppure mi ama più di voi. Mi porta i cibo, mi dà i vestiti. Mi ama.

Perché devo aspettare che un’altra voragine mi inghiotta per salvarmi all’ultimo e raccontarlo al mondo? Perché la gente ama le mie storie, frutto di infelicità cronica e non riesco a raccontare il bene di Fren?

E’ come se tutti i miei traumi, le mie paure, i miei fantasmi fossero di dominio pubblico, mentre le mie gioie sono soltanto mie. Una questione privata tra me e Fren.

Voi mi amavate, lo so. Ma nonostante tutto non ero mai abbastanza, volevate sempre di più, sempre di più, fino a spezzarmi le gambe, condurmi all’abisso.

Fren mi ha trovato steso riverso sulla moquette zozza del bagno, condita da torrentelli di Jack Daniel’s che scendevano copiosi dalla mia mano ormai senza alcuna presa, sulla mia testa, al cotone su piastrella.

Fren mi ha lavato. Mi ha abbracciato. Mi ha baciato. Come Cary Grant con Ingrid Bergman.

“Ivan Dallara?”

“Seh?”

L’ennesimo studentello di Lettere. Nonostante sia vestito come un barbone ho sempre un certo charme.

“Una sigaretta?”

Me la offre esitante, con gli occhi grandi quanto tutti il volto. Lo guardo storto. Tanto vale accettare tutto, in tempi di magra.

“Seh”.

Me la accende, prende fiato mentre cerca di farsi coraggio nel pronunciare la domanda che mi fanno da sempre. Continuamente. In tv. Nei giornali. Su internet. Nei forum. Nella mia casella di posta elettronica. Nella segreteria telefonica. Pure su un numero di Cronaca Vera. Che ruba il sonno ai miei fan. Da circa tre anni.

“Sta scrivendo qualcosa di nuovo? Quando esce il nuovo libro?”

Vorrei rispondere a questo stronzetto che non ho niente da dire. E quando un artista non ha niente da dire è meglio che stia in silenzio, altrimenti scrive solo una marea di cavolate pronte per la carta straccia. O al massimo giuste per il pomeriggio di una trasmissione generalista. Che mi sto rimettendo da una situazione complicata e da una grande delusione d’amore e ci vuole un po’ di tempo, si sa, per questo genere di cose. E invece continuo a fumarmi la mia paglia tranquillamente, gli regalo un bel sorriso e gli rispondo:

“Vedi. E’ la nostra immaginazione la causa dell’amore, non l’altra persona. Lo diceva Marcel Proust”.

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