Pensavo fosse una Nuvola

Bene. Sei appena arrivat* qui. Benvenut*, grazie per avermi fatto visita. Se vuoi, mentre ti togli la giacca e ti accomodi vicino a me mentre ti racconto questa storia, metti un po’ di musica d’atmosfera. C’è una playlist qui sopra. Click. E’ partita? Bene.

Mi piace avere un po’ di musica in sottofondo quando racconto, sai? Mi sembra di essere dentro a un film dove c’è un monologo importante. Tu versati pure un bicchiere di vino, o metti in infusione una tisana, sto per partire.
L’importante è che tu ti sia messo comod*.

“Nuvola” è tratta dall’omonimo libro di Alice Brière-Haquet e Monica Barengo per Kite Edizioni, che gentilmente mi ha ceduto l’immagine di copertina per l’artwork del singolo (credits: Marcello Della Puppa – Produzioni Atlante).


1. COM’E’ NATA NUVOLA?

Il libro mi è stato regalato da Chiara Patronella (la stessa amica che mi ha regalato “Domani inventerò”, finita poi in “Antifragile”) ho subito pensato che avesse una scrittura molto musicale, e qualche anno dopo, in un aprile molto piovoso dentro e fuori ho scritto musica e parole in pochi minuti.

Ho scoperto in età avanzata di avere una grande passione per i libri illustrati, soprattutto quelli per bambini. C’è poco testo e i concetti sono trattati in maniera delicata, poetica, pulita. Mi ci ritrovo molto.

In testa avvertivo una sonorità a cavallo tra David Sylvian e Cristina Donà, rarefatta, elegante e allo stesso tempo emotiva. Quasi istintivamente ho avvertito che la voce di Chiara Vidonis fosse perfetta per un duetto, perciò ho messo in macchina microfono, scheda audio e computer e sono partita alla volta di Trieste per farle sentire il provino.

(Foto: Claudia Bouvier)

2. LA PRODUZIONE

A Chiara il provino è piaciuto e mi ha regalato la sua voce, abbiamo passato un intero pomeriggio a improvvisare cori su cori che poi successivamente sono stati tutti tenuti e registrati in bella copia al Noshoes Recording Studio da Stefano Pivato, il mio produttore. Tuttavia sentivo di aver bisogno anche di un pianoforte dal tocco delicato e sognante, e ho chiamato Licia Missori, che a distanza, senza troppe indicazioni di forma (“Fammi un pianoforte alla Sylvian“) ha registrato una parte perfetta per il mood.

Ma la ritmica è la parte che amo di più: il pezzo, costruito in 6/8, ha un groove world che poggia su un’anfora, tamburi sciamanici, ocean drum e caxixi

Qualche mese dopo, le chitarre ambient di Claudio Russo hanno aggiunto il tratto emotivo mancante. Armato di Headrush, una chitarra con molto sustain e pedale ha ricreato un effetto molto simile a una pedal-steel.

Sono legata molto a questo brano perchè contiene tante energie femminili quante maschili in perfetto equilibrio. Ci sono giorni un po’ così, in cui niente sembra andare bene. Ci sentiamo avvolti da una nuvola, e non riusciamo a mettere a fuoco le cose, neppure se il cielo è luminoso. Questa nuvola rende tutto triste e nebuloso. Ma se sappiamo aspettare, spesso, il giorno dopo quella nuvola è passata, e tutto ci appare finalmente più chiaro e riconoscibile. Una storia che parla delle nostre giornate storte e della malinconia, e ci spiega che, se abbiamo pazienza, quella a breve se ne andrà via.



3. IL TESTO

Ti svegli ad Aprile
Con un’ombra in faccia
Oscura la luce, oscura la vista

L’ombra si posa sulle cose belle,
le rende più spoglie, le rende più lente.
Piove dentro me una grandine molto violenta,
pensavo fosse una nuvola.

E più scende giù diventa polvere,
diventa nebbia
e tu vai a fari spenti.

Ci sono giorni un poco stronzi,
non torna nulla,
non si sa perché.
Bisognerebbe guardare oltre
Semplicemente,
far finta di niente.

Rischi di cadere,
meglio fermarsi ad aspettare.
Il tempo s’aggiusta,
lascia che passi il temporale.

Piove dentro te una grandine molto violenta
Ne vedo sulla tua guancia
Gocce un poco liquide di una perturbazione atlantica
Che non sembra cessare.

Ci sono giorni un poco stronzi,
non torna nulla,
non si sa perché.
Bisognerebbe guardare oltre
Semplicemente,
far finta di niente.

Arriva maggio,
al tuo risveglio,
si apre un fiore tra testa e cuore.
Dopo la pioggia
c’è la carezza,
c’è la speranza
E’ primavera anche per te.

4. IL VIDEO


Quando abbiamo cominciato a girare sia Chiara che io eravamo in zona rossa e ho avuto l’idea di riprendere una nostra giornata dalla mattina al tramonto, lei a Trieste, io a Padova. L’idea è quello di raccontare la contemporaneità armate solo di fotocamera del cellulare, senza filtri, il nostro oggi, le nostre Nuvole.

Dopo di te

DOPO DI TE (ex BOTTEGA NATURA)
quel reading che non ti manca
di e con Elisa Bonomo
(2016)

[la foto è di Susanna Iovene]

Non mi manca.
Più mi sforzo di capire come son potuta stare insieme a una persona 7 anni e mezzo e nel giro di due mesi vivere tranquillamente senza di lei, più non ne vengo a capo.
Forse non l’amavo veramente.
Forse perché l’avevo lasciata io.
Forse.

Le altre volte, intendo le rotture, ci son rimasta sotto dei mesi, anni. Anche con relazioni in corso. Io poi son una che con i rodimenti d’animo ci va proprio a nozze, con i pensieri ossessivi che rimangono inceppati nella mente per giorni interi, con i ricordi, con i rimestamenti.

Stavolta manco il picchio.

Me ne sto seduta nella sala d’aspetto delle Poste Italiane e penso a quanto la mia vita in questi due mesi sia stata comunque dura e impassibile con me, ma è comunque migliore senza di lei.
E mi sento crudele.
Anzi, mi sento decisamente una merda umana.
“Avanti, signorina Rover. E’ il suo turno”

Nel pomeriggio devo essere a teatro, ma il regista è in ritardo e piuttosto di starmene con le mani in mano impensierita e arrabbiata per gli affari miei, decido di andare al Grande Centro. Devo comprare dei prodotti. Ma soprattutto devo fare una cosa.

Definire Il Grande Centro un centro commerciale è riduttivo. E’ un complesso di tre piani, esteso quanto la Svezia, pieno di negozi e quant’altro.
Lei adorava andarci. I centri commerciali erano la sua passione nei weekend.

Salgo le scale mobili e comincio a sentirmi uno strano disagio addosso. Non quel sottile e familiare strato d’ansia che opprime a caso le mie giornate, ma uno strano magone che dal petto-viaggia-verso-la-gola.

Bottega Natura. Acquisti prodotti per il corpo bio.
Lei aveva una tessera fedeltà per qualsiasi cosa.
“Gli sconti, non si sa mai”
Se le aprivi il portafoglio trovavi anche la tessera della Biblioteca di Catanzaro, visitata una volta e mai ritornate.
“Metti caso che ci ritorni, hanno già il mio nominativo”
Una tessera per tutto.

Quelle cose che si fanno insieme, ormai per assodate.
Lei mette la tessera, dà il suo indirizzo di casa, arrivano gli sconti per il volantino, si decide insieme cosa comprare, si va.
Tu (io) metti il tuo numero di cellulare.
“Tanto volte la usi anche tu! Quando non sono a casa ti arriva l’sms e vai! No problema, basta che dai il mio nominativo”
Il suo nominativo, già.

E poi passa il tempo.

“Scusi, mi devo fare la tessera”. Dico alla commessa, dopo l’acquisto di acqua micellare, struccante bifasico, crema al miele, scrub al pompelmo.
“Ah ottimo, così ha il 50% di sconto sulla prima spesa”
(pausa)

Non voglio farlo. E’ veramente una cosa piccolina, ma mi fa comunque male.

[LA VOCE DELLA COMMESSA ALTA, LA VOCE MIA PIU’ BASSA]
“Fanno 30 euro”
Consegno-la carta-di credito. Non posso più rimandare. (respiro) Prendo un bel respiro.

“Posso chiederti una cosa?”
“Se posso.”
“Puoi cancellare il mio numero di cellulare associato a un’altra tessera?”
“Ah. Certo!”

La commessa entusiasta non capisce il perché di cotanta solennità e mia partecipazione emotiva alla richiesta.

“Mi basta il cognome”
“Franceschini”
“FRANCESCHIIINNN?”

(infastidita) Oltre a dirlo, anche l’imbarazzo di doverlo ripetere.

“Franceschini. Con la i finale”
“Ok… Franceschini. Di Treviso, giusto?”
“Sì” (quasi sottovoce)
“Nome?”

Il suo nome mi esce sempre pronunciato dolce, affettuoso. Come se dovessi averne cura, preservarlo dagli altri. Lo accarezzo ecco, non lo pronuncio.

“Viola”
“Eccoci. Viola. Eliminato”

ELIMINATO. (a mezza voce)
La commessa alza lo sguardo e vedi che rimane spiazzata per un attimo dalla mia espressione indecifrabile. E’ interrogativa perché non capisce come quella parola in quel momento ha un effetto stranamente molto doloroso su di me. Che prevedo ma che sorprende sempre. Anche quando esco da Bottega Natura e vedo il McDonald’s, e mi ricordo di quando per cercare di rimanere insieme dopo il primo strappo ci prendemmo un Happy Meal. O quando ci fermavamo nell’Agorà a vederci un concerto. O quando mi fece girare tutti i negozi da uomo per trovarsi una giacca taglio vivo.

IO MI RICORDO SEMPRE TUTTO. (scandito)
Non so se sia un pregio o una condanna.
Anche i luoghi hanno memoria, le cose che tocchi, i regali ricevuti, gli oggetti non saranno più gli stessi, dopo di lei.
Non è l’oggetto che cambia, è il tuo occhio che lo vedrà per sempre in maniera diversa, dopo di lei.

Ogni storia finita è una distruzione di una civiltà fatta di due persone che hanno inventato una nuova lingua, costruito nuovi modi di dire, nuove ricette, nuovi modi di vestire, nuovi mezzi di trasporto, viaggi, fotografie, canzoni.
Cammini a bordo delle macerie, scavando tra i resti che non sono bruciati.
Quelli, quelli sono i ricordi.

Torno a casa e cerco di parcheggiare l’auto.
Faccio un parcheggio a S perfetto.
“Vedi, il trucco è che devi andare dietro dritta, e poi fare manovra”

Me l’ha insegnato Lei.
Una fitta amara e dolce allo stesso tempo in gola.

E ho capito perché non mi manca.
Perché me la porto sempre dietro. E nelle cose belle lei c’è sempre.

Affinità e divergenze tra me e Proust (Marcel)

AFFINITA’ E DIVERGENZE TRA ME E PROUST (MARCEL)
(2011)

Fa freddo. Molto freddo. Ho un maglione sopra un altro maglione, il cappotto, la sciarpa e il cappello da neve e non riesco a scaldarmi.

Saccheggio tutte le coperte qua in casa. Ancora freddo. D’altronde cosa voglio pretendere, dopotutto.

Ci hanno tolto il riscaldamento da due mesi. Non pagavamo il riscaldamento, le bollette, non rispondevamo ai richiami, le lettere di sollecito non stavano nemmeno più nella cassetta della posta.

Non ci davamo quasi più bada, oramai. Chi ci chiudeva la luce, il gas, l’acqua calda, il telefono…

E noi niente.

Zitti, in silenzio. Fingevamo di essere partiti, di non essere in casa, facendo meno rumore possibile durante il giorno, tirando l’acqua del bagno una volta sola, uscendo prestissimo o tardissimo solo per lo stretto indispensabile.

Sembravamo dei topi, delle cavie da laboratorio. Mi sentivo prigioniero in casa mia: pieno zeppo di tempo libero sì, ma con la pancia costantemente vuota, e per quanto aprissi o chiudessi le ante dello scaffale in cucina non è il cibo apparisse miracolosamente. Vuoto era e vuoto rimaneva.

Chissà come si sentiva Proust quando decise di chiudersi volontariamente nella residenza di Boulevard Haussmann, a scrivere di notte Alla ricerca del tempo perduto. A letto, in una stanza foderata di sughero per isolarsi acusticamente. Chissà se rimaneva a letto per stare al caldo, cagionevole com’era.

Fuori fa freddo, è piovuto da poco, ma non credo che ci sia molta differenza con la temperatura qui dentro. Tanto vale uscire allora. Vengo investito dalle luci, dalla gente, dalla vita. L’uscio della mia casa sta proprio sulla strada, una delle vie più trafficate della città, e assieme al vociare dei passanti sento il rumore delle auto sull’asfalto bagnato, quest’odore così inebriante, di lavato. Di sistemato.

L’odore del dopo-pioggia è inconfondibile, uguale in ogni città in cui mi sono trovato, forse un po’ più umido, forse un po’ più freddo alle mie narici a seconda della stagione.

Qui è freddo intenso, rinvigorente. Se fossi Clark Gable in Accadde una notte direi igienico e corroborante. Eppure è una delle poche cose che mi dà calma e pace, come se tutto nella mia vita si fosse aggiustato.

E allora cammino, e per un po’ mi dimentico di me, dei miei debiti, del mio portafogli sempre vuoto, di Fren, del buco nero petrolio che scende sopra ai miei sogni.

Cammino sopra la stazione ferroviaria, sotto il traffico delle automobili, i loro anabbaglianti puntati, i loro motori assordanti in coda ai semafori. La stazione, la scritta blu “PADOVA”, le persone che guardano il tabellone del treno al binario, lo stridore dei treni. Io, appoggiato ai pannelli fonoassorbenti con le cicche attaccate alla ringhiera osservo tutto…

E non sento più nulla…

Fren…

Quante cose diamo per scontate nella nostra vita. Io ho dato per scontato la mia eterosessualità. Come Proust.

Fren è un uomo, io sono un uomo.

Ogni tanto mi dimentico di amare un uomo, pochi lo sanno. Basterebbe un motivo futile e potrei mandare all’aria questa relazione. Sarebbe finita e nessuno se ne accorgerebbe. Proust non lo disse nemmeno alla madre.

Giù dal cavalcavia l’entrata della stazione, il Blockbuster, il circolo scommesse e il Mc Donald’s.

Mi sono così abituato a non guardare le persone in faccia che non le vedo più. Mi stanno attorno ma non esistono, sono una nube grigia che mi circonda, una nebbia fine che respiro ma in cui vado oltre.

Butto un’occhiata dentro al fast-food: ci saranno cinque o sei persone. Vista l’ora non mi stupisco. L’arredamento colorato, dalle sedie, ai tavoli, al bancone, sbatte con la luce piatta e uniforme dei neon. Chissà se Marcel Proust avesse addentato un cheeseburger al posto della madeleine si sarebbe ricordato con piacere della sua infanzia e della sua zia malata. Forse gli avrebbe dato solo una certa acidità e una strana assuefazione. O forse non si sarebbe ricordato niente, come un dolore fortissimo che si dimentica. Come i dolori di un parto. Come i dolori di un amore finito male. Malissimo.
Tutto merito dell’ossitocina. Ha gli stessi effetti dell’alcool.

Nina e Igor mi sembrano tanto lontani, eppure è passato solo un anno. Eravamo veramente felici noi tre? Eravamo veramente una stessa persona? Eravamo veramente tanto simili e sensibili o vivevamo semplicemente come funghi, in simbiosi?

Era amore o era solo una suggestione?

Era incredibile come riuscissimo a fare cose diversissime tutte insieme. Nina recitava, io scrivevo e Igor dipingeva il nostro magnifico quadretto familiare.

Già.

Il Corso principale è una gola arrossata, dei bronchi intasati di catarro. E’ una bocca che tossisce e borbotta, che si lamenta, che mugugna. Io guardo le vetrine con gli addobbi di Natale. Tre quarti dei negozi vendono cose che non mi posso permettere.

Dicono che gli artisti lavorano meglio in povertà. Non è vero. Quando non hai niente sei troppo impegnato a sopravviverti. A tirare avanti, mangiare, bere, dormire. Stare al caldo. Al limite, se e proprio se, scopare ogni tanto.

Una volta era più semplice: per essere un grande scrittore o interrompevi gli studi in Legge o morivi di tisi. Ma Proust comunque era ricco di famiglia.

E’ finita tra noi. Non poteva andare avanti e lo sapevamo tutti e tre. Piano piano siete diventati veleno. Che ingoiavo ogni giorno con il caffè, come Ingrid Bergman in Notorius. Vi ingoiavo ogni giorno e mi sentivo peggio. Io ero ossessionato da voi, dai vostri fantasmi e mi sentivo macero, violento, irascibile e perennemente ubriaco.

Bisogna veramente stare male per scrivere bene? Ora che ho Fren non ho più la mia arte. Eppure mi ama più di voi. Mi porta i cibo, mi dà i vestiti. Mi ama.

Perché devo aspettare che un’altra voragine mi inghiotta per salvarmi all’ultimo e raccontarlo al mondo? Perché la gente ama le mie storie, frutto di infelicità cronica e non riesco a raccontare il bene di Fren?

E’ come se tutti i miei traumi, le mie paure, i miei fantasmi fossero di dominio pubblico, mentre le mie gioie sono soltanto mie. Una questione privata tra me e Fren.

Voi mi amavate, lo so. Ma nonostante tutto non ero mai abbastanza, volevate sempre di più, sempre di più, fino a spezzarmi le gambe, condurmi all’abisso.

Fren mi ha trovato steso riverso sulla moquette zozza del bagno, condita da torrentelli di Jack Daniel’s che scendevano copiosi dalla mia mano ormai senza alcuna presa, sulla mia testa, al cotone su piastrella.

Fren mi ha lavato. Mi ha abbracciato. Mi ha baciato. Come Cary Grant con Ingrid Bergman.

“Ivan Dallara?”

“Seh?”

L’ennesimo studentello di Lettere. Nonostante sia vestito come un barbone ho sempre un certo charme.

“Una sigaretta?”

Me la offre esitante, con gli occhi grandi quanto tutti il volto. Lo guardo storto. Tanto vale accettare tutto, in tempi di magra.

“Seh”.

Me la accende, prende fiato mentre cerca di farsi coraggio nel pronunciare la domanda che mi fanno da sempre. Continuamente. In tv. Nei giornali. Su internet. Nei forum. Nella mia casella di posta elettronica. Nella segreteria telefonica. Pure su un numero di Cronaca Vera. Che ruba il sonno ai miei fan. Da circa tre anni.

“Sta scrivendo qualcosa di nuovo? Quando esce il nuovo libro?”

Vorrei rispondere a questo stronzetto che non ho niente da dire. E quando un artista non ha niente da dire è meglio che stia in silenzio, altrimenti scrive solo una marea di cavolate pronte per la carta straccia. O al massimo giuste per il pomeriggio di una trasmissione generalista. Che mi sto rimettendo da una situazione complicata e da una grande delusione d’amore e ci vuole un po’ di tempo, si sa, per questo genere di cose. E invece continuo a fumarmi la mia paglia tranquillamente, gli regalo un bel sorriso e gli rispondo:

“Vedi. E’ la nostra immaginazione la causa dell’amore, non l’altra persona. Lo diceva Marcel Proust”.

PDV – Punti di vista

“PDV – PUNTI DI VISTA”
Un reading sul mancarsi

di e con Elisa Bonomo (2016)

[NOTA: Quando ero piccola ero ossessionata dal fatto che forse non avrei mai incontrato la mia anima gemella. Perché le persone che si sposano abitano tutte vicine? E se la mia anima gemella fosse in Brasile e non lo sapessi? Esiste davvero l’amore a prima vista? Come faccio a capirlo?
Lo capisci, bestiola. Buona lettura!]

[La foto in evidenza è di Claudia Calderone]

Aveva letto da qualche parte che la musica classica diminuiva le aggressioni nei luoghi pubblici. L’articolo sosteneva che le rapine in Stazione Centrale erano scese di almeno la metà da quando avevano messo un pianoforte a coda fuori dal Binario 1, proprio di fronte al bar dove Lei serviva caffè.

Ne vedeva di gente sedersi al pianoforte. Li scorgeva solo di spalle, ogni giorno. Non potendoli vedere in faccia, aveva cominciato a riconoscere il tocco forestiero del viaggiatore occasionale da quello del suonatore abituale. A orecchio sapeva distinguere la mano nervosa del Vecchio che strimpellava qualche ballata popolare, del Bambino impacciato alle prese col primo Mozart, della Signora Ingioiellata che puntuale si presentava alle una di ogni giorno.

Ma stavolta era diverso.

Si era seduto e sembrava nervoso, in silenzio. Per un momento parve alzare la testa.

Poi iniziò.

Ci si può innamorare così impunemente di un paio di mani?
Così spudoratamente di una schiena?
Così improvvisamente di una nuca?

Sì.

Sembrava tutto così semplice, e al tempo stesso inconcepibile.

Amava suo marito, ma se in quel momento Lui si fosse alzato e le avesse chiesto di scappare con Lei, Lei… l’avrebbe seguito.

*******

Stava tornando dall’ultima tournée in Brasile.

Tutto gli sembrava ormai meccanico, definito, senza segreti.

“Il Virtuoso Polacco”.

Come poteva essere che la Musica per lui fosse ormai tutta scritta? Senza alcun tipo di sbavature, emozioni incontrollate. Senza più un briciolo di libertà?

Come poteva essere così tutto prevedibile, stancante, senza un’anima d’istinto?

Ad un tratto vide un pianoforte. In mezzo alla stazione.
E gli sembrò bello per una volta trovarsi fuori posto.

Lo sgabello era vuoto. Si avvicinò.

Sistemò la seduta e si sedette.

Prima di toccare il pedale espressione con il piede destro e appoggiare la mano sinistra su un do diesis minore, avvertì qualcosa alle sue spalle.

Intorno a Lui qualcosa vibrava.

Alzò per un attimo la testa.

Capì che Lei era lì. E lo stava ascoltando.

Sole e vento al tempo stesso.

Suonava e con la coda dell’occhio poteva intuire la sua sagoma, nulla di più. Più suonava e più si rivelavano il taglio dei suoi occhi, il tono della sua voce, le fossette che le si disegnavano a ogni suo sorriso, lo scroscio della sua risata.

E capì che l’amava, e che ormai niente sarebbe stato lo stesso.

Esisteva. E Lui l’aveva trovata.

Suonava come non aveva mai fatto in quegli ultimi anni, come se il tempo fosse lungo, eterno, e capì e ritrovò la ragione del perché aveva imparato a suonare, per rendere il tempo uno spazio fatto di pù mondi possibili a clessidre trasversali dove potersi rifugiare, dove c’erano Lui e Lei per uno spazio infinito, fatto solo di uno scopo essenziale, fatto di suoni, parole e l’ascolto di Lei.

Si incontrarono e si amarono lungo passi neri e passi bianchi, circondati un cielo a scacchi, lungo un fiume infinito.

Era proprio Lei, al suo fianco, l’Ascolto, che rendeva la musica ancora più bella, la passione sui tasti ancora più vivida, più emozionante.

*******

“Questo cappuccino arriva sì o no?”

Non si era resa conto che stava con il bricco del latte caldo in mano e lo stava ancora fissando.

Ma ai clienti poco importa di un amore appena sbocciato. Lo stava aspettando, in attesa di incontrare il suo sguardo, era l’unica cosa che poteva fare.

“Ah sì, ecco. Mi scusi”

“3 cappucci, poca schiuma, non troppo caldi eh, che l’altra volta mi sono pure scottata, giovane

3 piattini, cucchiaini, due giri di macchina, vapore, caffè pronti, schiuma. Poca.

“Pronti”

(Non andartene-non andartene-non andartene-non andartene)

Alzò la testa. E Lui non c’era più.

Siamo strumenti, come queste corde di pianoforte. Vibriamo insieme nella stessa precisa frequenza.

Ne convenne che l’amore era una questione di tempi.

“Merda. Sono veramente fottuta”

******

Sapeva che doveva finire, andarsene. Ma prima doveva vederla, voleva incontrare il suo sguardo, era l’unica cosa che poteva fare.

L’ultimo accordo tenuto, l’applauso degli astanti. E poi i suoi occhi si diressero verso di Lei.

Stava girata verso la macchina dei caffè.

Siamo strumenti, come queste corde di pianoforte. Vibriamo insieme nella stessa precisa frequenza.

“Maestro, maestro! Che cosa sta facendo ancora qui? Il taxi l’aspetta fuori!”

Sostenne più che poté lo sguardo. Finché la perse, trascinato fuori dal suo assistente.

Ne convenne che l’amore era una questione di tempi.

“Merda. Sono veramente fottuto”

Beva, beva, mi raccomando beva

“BEVA, BEVA, BEVA. MI RACCOMANDO, BEVA”
un READING CONVALESCENTE
di e con Elisa Bonomo (2016)

[Nota a margine: Ho scritto questo testo nel 2016 dopo una mononucleosi piuttosto aggressiva. Per un mese la mia giornata era scandita dall’assunzione di farmaci. Il periodo e la visione compulsiva di “Pomeriggio 5” sul divano di casa hanno fatto nascere la canzone più cattiva di Sinusoide, “Maleducata”]

(stentorea)

Tachipirina: 1000 grammi compresse, Paracetamolo, massimo 3 al giorno una ogni 8 ore.
Una compressa. Un bicchiere d’acqua. Afferro il bicchiere e bevo. Bevo perché so che anche oggi devo idratare il mio organismo.

(Pausa)

Ore 7.00: Lansoprazolo Sandoz BV, 30 mg, capsule rigide gastroresistenti. Da prendere per 10 giorni, a digiuno, appena sveglia, prima di tutti gli altri medicinali. Serve a proteggere lo stomaco.

Ore 9.00: Prima misurazione febbre con Nestlè Lc1 Vital. Un miliardo di fermenti viviii! (entusiasta). Con Vitamina B6 che aiuta a ridurre
– la stanchezza
– la fatica

DUE BOTTIGLIETTE GRATIS CON L’ESCLUSIVO LACTOBACILLUS JOHNSONII LA1!!!

(Pausa)

Nota a margine: boicotto Nestlé e tutti i prodotti affini da quando ho 18 anni perché ho letto NoLogo e c’era la storia del latte contaminato.
Ho pure fatto una tesina che era un misto tra inchiesta e “V per V Vendetta” in salsa teen e ho preso 10.
E adesso l’unica cosa proibitiva che il mio stomaco accetta è la mia acerrima nemesi adolescenziale che in questo momento mi sta facendo un grandissimo “SUCAAA!“, dall’alto della sua linguaccia da staccare in alluminio.

Maledetto karma.

Ore 10.00 mattina: Macladin 500 mg, compresse rivestite claritomicina. 2 al giorno ogni 12 ore per sette giorni. Ho preso il farmaco generico perché più economico e soprattutto perché il farmacista mi fa “guardi ha lo stesso principio attivo dell’altro, la differenza è il prezzo” e allora eccoti qui i miei 2 euro. E io felice esco, con i miei soldi in tasca, con la consapevolezza di aver gabbato i Big Pharma.

(Pausa, seria)

E invece no.
Se mia madre al posto dell’Imigran prende IL (sottolinea con l’indice destro) farmaco generico, col picchio che le passa l’emicrania.

“Effettivamente il principio è attivo è un po’ meno. Nel generico”, le ha confidato il farmacista, messo alle strette.

NESSUNO UCCELLA MIA MADRE. Nemmeno la medicina sommaria.
Lei sa.
Ma te lo dice dopo.

Ore 10.15: N°2 fette di patata da poggiarsi su occhi gonfi per 15 minuti. Aiuta a sgonfiare.
Ore 10.30: Rimuovere n°2 fette di patata. Notare se miglioramenti.
Ore 10.30 e 15 secondi di orologio smartphone: No.

Ore 12.00: Seconda misurazione febbre featuring Fermenti lattici Lactoflorene PLUS Fermenti Lattici Vivi ad azione Probiotica con vitamine del gruppo 8 e Zinco senza glutine e lattosio.
E su questo, niente da dire. (alzando le mani, scuotendo il capo)

Ore 13:00: Assunzione gelato fresco al limone, thè, succo, acqua…bere bere bere sempre almeno 1 litro, un litr ‘e mezzo di acqua al giorno perché devi mantenerti idratata e in più combatti l’astenia primaverile, lo dicevano ieri ai Fatti Vostri e se lo dice Magalli io ci credo!

Ore 14:00: Gargarismo dopo pasto con un cucchiaio di sale grosso e/o bicarbonato di sodio e acqua. Sciacquare.
Il Bicarbonato ha un sacco di proprietà sapete. Usatelo per la lavatrice, per pulire, per sgrassare, per i capelli, per fargli gli scrubs face&body, per i denti…

Ma il bicarbonato ha purtroppo un annoso problema di autostima. Nonostante le sue MOLTEPLICI CAPACITA’, si è sempre sottovalutato molto.
Perché si fa pagare poco.
Ore 14:15: Riflessione sul fatto che io e il bicarbonato in fondo non siam poi così diversi.

Ore 15:00: Terza Misurazione ossessiva compulsiva febbre. Quando sale mi ricorda l’applausometro di “La Sai L’ultima?“. Vorrei essere Pamela Prati. Ma non quella di Mark Caltagirone. Quella con Pippo Franco. Ne evinco che se penso liberamente a Pippo Franco in un casuale giorno di Aprile forse la mia febbre è abbastanza alta.
Ore 15:15: E se l’attesa della prossima misurazione della febbre fosse essa stessa la misurazione della febbre?

Ore 17:00: Visita parente e/o affine che sicuramente sa più di te sul tuo stato di salute, sul fatto che ti trascuri, sul fatto che l’omeopatia è meglio e la naturopatia dice di più, “hai mai pensato alla meditazione?”, non ti rispetti, che ti devi fermare, che non hai pazienza, che non ti curi abbastanza, che non hai fatto i controlli giusti, che c’è un sacco di gente che ha la tua stessa malattia… forse è in giro, che non hai ascoltato il tuo corpo, eh che un po’ te lo meriti… (alzando la voce, urlando scocciata) E allora ammalati tu parente, toh, ammalati, divertiti un po’ anche tu… Cosa vieni a fare qua se non a dirmi cose che non so già… (breve pausa) E ringrazia Dio che oggi non ti posso dire quello che penso perché ho la giornata veramente piena!

Ore 19:00: Zirtec 10 mg, compresse rivestite con film. Cetizina dicloridrato. Una al dì, per 14 giorni, e mi raccomando dieta in bianco perché dobbiamo ridurre il rischio allergeni e di solito si parte dagli alimenti quindi quasi tutto al vapore, poco sale, poco olio, poco tutto, riso sì, verdura e frutta quanta ne vuole, attenzione carni rosse e assolutamente
NO UOVA
NO CIOCCOLATO
NO INSACCATI
NO LATTICINI

(qui procede come fosse un dialogo a due voci)
(abbattuta) “Se mi diceva ‘Astinenza sessuale per un mese ero più contenta” (accondiscendente) “Sì, ma almeno la Zirtec la può assumere sempre alla stessa ora”

(breve pausa)

“Dottore, ma la febbre non mi scende”
“Ok allora” (segue lista)
Ore 19:00: Deltacortene. 25 mg compresse. Prednisone. 10 compresse. A stomaco pieno. I primi 5 giorni pastiglia intera, i secondi cinque giorni mezza pastiglia. Ma continui a prendere gli antibiotici, perché oltre a essere virale potrebbe comunque esserci qualcosa di batterico. Cosa mi combina, Bonomo! Beva, beva, beva sempre che il cortisone deve starsene sul suo corpo ora ma non per troppo. Quindi mi raccomando, Beva!
Dalle ore 20:00 alle ore 21:00: BEVO.

Ore 23:00: Mi sono dotata di due termometri, uno elettronico a bip e l’altro a mercurio che infilo nello stesso momento nelle due ascelle per creare media, mediana e moda dei risultati.

Ore 24:00: Che vita di merda.
Di merda, ma ben idratata.

Il dolore degli altri

PREMESSA:
Ci ho pensato bene prima di scrivere questo articolo, il rischio di suscitare pietà o un certo tipo di pornografia sentimentale è molto alto quando si parla di disturbi depressivi.

Eppure lo faccio per quella grande fetta di lettori che, come me quando stavo male e non ero in grado di esprimermi, hanno trovato un po’ di se stessi nelle parole degli altri.

Il mio racconto sarà un po’ sparso, un po’ deviato, come tutti i pensieri che faticosamente ho raccolto dalla loro forma stropicciata e ho piegato, e cercato di mettere vicino alla parole di chi mi è rimasto vicino in questi mesi.
Buona lettura!
Elisa

“Il dolore degli altri”

Sai, il dolore degli altri fa sempre un po’ paura. Non sai come toccarlo, non sai come affrontarlo. Resti sempre a guardare e non sai se fare un passo indietro o un passo in avanti.

Ho pensato spesso a questa frase di Chiara in queste ultime settimane.
A quanto dolore abbiamo provato tutti noi, per una situazione o per l’altra, a quanto siamo stati messi alla prova.
A quanto vorremmo dirci l’un l’altro che ci vogliamo bene, che ci siamo, ma magari non riusciamo ad esserci come l’altro vorrebbe, o perché siamo impegnati in una battaglia di cui pochi o nessuno sa, o semplicemente perché la vita ci ha induriti, anestetizzati, stancati.
Perché dichiarare il dolore in questa società ci rende vulnerabili, fragili, incompresi da chi appunto, il dolore dell’altro non lo vuole vedere e lo minimizza, lo caccia, lo ridicolizza.

Mentre scrivo do uno sguardo a Viviana, una ragazza eccezionale.
La fisso, e mi sorride, bellissima nel suo abito celeste.
Viviana non c’è più e non ho memoria di una volta in cui non mi sorridesse con ogni parte del suo corpo: con gli occhi, con la voce, con le mani.
Aveva una luce bellissima, le ho voluto molto bene e la sua foto l’ho messa nello studio, circondata dai libri di musica, di lezioni di allievi, dei miei strumenti musicali, dalle note “Vivere” di Vasco Rossi che tanto stiamo suonando in questi giorni.

Mi hanno chiesto di cantare al suo funerale, alla fine, e io ho fatto il mio meglio, anche se avevo la voce strozzata, emozionata, liquida e raggrumata.

Ho letto da qualche parte che il canto e la musica, prima di essere portati a una dimensione elitaria, era alla portata di tutti, era una preghiera, un’elevazione dal quotidiano per sollevare lo spirito.
E’ stato in quel momento ho pensato che non si sfugge mai alle proprie vocazioni. Come dice Silvia Magnani, le vocazioni appaiono un po’ prima dell’adolescenza, noi già da piccoli sappiamo benissimo cosa fare. Il calciatore, la suora, il prete, il cantante: se abbiamo una vocazione o la assecondiamo, o ci mettiamo una coperta sopra.

Ecco: nel momento più delicato della mia psiche, mi hanno chiesto di essere voce. La mia vocazione primaria.

“Non mi sento molto bene”

Ricordo poco di gentile in questi ultimi mesi mentre ero una nuvola paralizzata.
Ricordo Matteo che mi versa un bicchiere d’acqua dopo avergli dato un calcio dialettico in pieno petto, ricordo Adam che molla il suo panino mentre sta sotto una panchina assolata per darmi una mano a disarcionare il carrello della spesa, Silvia che educa la mia voce in una stanza veramente afosa, Chiara che mi prepara da mangiare, mi prepara un letto e mi fa passeggiare, mia mamma che mi stringe e mi dice “calmati, calmati, sono qui”, Alberto che mi regala una serata al Conestoga, Stefano che mi mette dello zucchero nel caffè e me lo porge.

Ricordo che me ne sto accovacciata per terra con la bicicletta vicino, incapace di camminare o di non dire altro che “mi sento poco bene”.
Sento le sirene dell’autoambulanza, mi caricano e mi tengono al Pronto Soccorso di Abano Terme per qualche ora.
Sono tutti gentilissimi con me, e io quasi mi sento in imbarazzo che qualcuno si stia prendendo cura di me.

Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre. (Carlo Mazzacurati)

Posso dire che tutto è arrivato insieme, male e forte. Il Covid, la mia famiglia, i miei affetti, il mio studio, il mio futuro. Il sassolino è diventato una valanga, e per me non è stato più facile controllarlo. Credevo che una pausa forzata mi insegnasse a riflettere e a diventare una persona migliore, e di fatto per alcuni versi è stato così, per altri versi è stato un forte acceleratore delle mie paure e dei mostri che continuo a tenere nascosti dentro l’armadio. Ognuno di noi in questo periodo ha fatto i conti con i propri livelli di sofferenza, di crisi, di domande insolute e di progettualità.

C’è sempre qualcosa che ci porta indietro, e ogni volta ci tocca partire daccapo (Marco Paolini)

Ascolto Marco Paolini dalla prima fila nel cortile del Teatro Villa dei Leoni, visibilmente segnato in volto. Sono stata l’ultimo biglietto dell’ultimo giorno, trovato per fortuna. Penso che mi sento molto bene nel sentire qualcuno raccontare, darmi il suo lucido punto di vista sulla situazione. Concordo sul fatto che questa non è una ripartenza, è una pausa, e non so se la mia mente potrà resistere a un secondo lock-down. Penso che mi mette un po’ di angoscia assistere con la mascherina e distanziata a uno spettacolo teatrale, la mia testa si rifiuta di pensare che questa situazione possa essere permanente, ma un’altra parte la teme e non sa come reagirà.
Mentre sorrido a qualche battuta di monologo, penso a come Marco si possa sentire dopo la vicenda che l’ha colpito. Se si sente ancora in colpa per quello che gli è successo, se gli fanno male le risate del pubblico come avevo letto in un articolo di giornale e allora cerco di contenerle, mascherarle ed è facile mascherarle con una diamine di mascherina, ironia della sorte. Penso che Marco, come me e tanti altri, ha fatto i conti con il concetto di irreversibilità, ovvero che la sua vita da un certo punto in poi non è potuta più essere  la stessa.
E come si sopravvive a una condizione di irreversibilità?

“Sto vivendo un periodo difficile”

Ho smesso di ascoltare musica, e di farla. Mi sono persa molte cose in questo periodo, molte occasioni, chiedo scusa a tutte quelle persone che aspettavano da me delle risposte, ma l’apatia porta a rendere ogni cosa difficile, come se fossi schiacciato da un peso di una tonnellata e il compito sta proprio sopra una montagna altissima.
Quando stai veramente male perdi persino la forza di chiedere aiuto, ti sembra tutto piatto, tutto inutile. Quando ho cominciato a credermi in un posto e vedermi in un altro, a non tollerare nessun tipo di stress che non fosse mangiare, bere, dormire, una parte di me, quella più cazzuta, ha pensato che la mia vita, almeno per me, valeva qualcosa. Che non si può vivere mangiando ansia. Che non c’è niente di giusto nel vedersi attraverso una finestra. Che non ci si può vedere finiti a 33 anni. E così ho chiesto aiuto.
Un aiuto vero.

Le cose difficili sono tante cose semplici messe insieme. Le cose possono cambiare, non abituarti, ma soprattutto, non accontentarti (Giovanni Rago)

Per te che hai letto fino alla fine, mi sento di dirti grazie, e di dirti che anche nei momenti in cui non ci sei più tu, la tua vita vale. Vale sempre.
E’ il tuo cervello a convincerti del contrario, che è finita, che non servi, ma non è mai così, è un grande inganno costruito da te da cui solo tu puoi uscirne con dei bravi professionisti.
A me suonare fa ancora un po’ male e faccio fatica a farlo, ma continuo ad insegnare e a dare quel poco che ho oggi con tutta me stessa. Ho imparato che a volte si deve solo stare in silenzio perché è giusto così, che i mesi che perdi rispetto agli anni che vivi sono comunque un lasso di tempo che poi si può recuperare. Un silenzio di ricerca è esso stesso lavoro.

A te che continui a leggere, non sei solo, ci sono un sacco di motivi per cui continuare a vivere, anche se ora tu non li vedi. Sei una collana rotta e ci vorrà del tempo per ritrovare tutte le perle e rinfilarle una alla volta, e potrà ricaricapitare di romperti, non lo escludo.
Prenditi cura di te stesso, e del tuo dolore, chiamalo per nome, dagli importanza, presentalo a chi ti ama. E’ il primo passo per stare bene.

In bocca al lupo a te, io so vedere il tuo dolore.

Elisa

L’arte di lasciarti andare

“Il cuore ha una capacità di amare infinita… E’ che molto spesso la gente lo dimentica”

“Vedi Eli, ti conosco da molti anni. E sei una che si fa sempre un sacco di domande. Il tuo lavoro ti spinge a fartele, come pure la vita. Ecco, io credo che il tuo lavoro ti spinga a vivere una vita incredibile, ma attorno a questo tuo perno penso che ruoti il tuo senso”

Ho fatto l’ultima data di Antifragile con il magone di chi lascia andare una persona amata per un po’ di tempo, dopo averla conosciuta, aspettata, odiata, maltrattata, abbandonata, ripresa, riscoperta, riamata, apprezzata e rispettata.
Sono partita con questo blog qualche anno fa, quando qualcuno mi disse che parlare di me sarebbe stato pornografico, e invece è stato il mio più grande successo.
Mancava solo il capitolo finale di una storia lunga più di due anni.

Due anni incredibili che se mi guardo indietro mi hanno fatto toccare con mano cose che nemmeno avrei immaginato all’inizio dell’avventura, io, quella ragazzina con i capelli ricci che aveva lasciato il lavoro da social media manager e si disperava per un reddito precario.
Io, che imparavo e rimanevo incantata a vedere come le mie canzoni diventavano qualcosa che poteva somigliare alle canzoni che passano per radio.
Io, che dall’alto di tanti tetti crollati ho tenuto “Antifragile” stretto stretto, e me lo son portato avanti.

Il Piccolo (e lo chiamerò sempre così) ha fatto tanta strada, più di quanta immaginassi. E’ stato tanto amato e sostenuto, più di quanto pensassi.
Il Piccolo mi ha portato a misurarmi con me stessa e con gli altri più di quanto potessi sostenere, a volte mi ha letteralmente schiacciata, ma come dice Bowie… “Se sei capace di resistere a un tour puoi resistere a tutto”.

Credo in maniera assoluta e totale che fare dischi mi aiuti a diventare volta dopo volta un’artista e una persona migliore. E riascoltando “Antifragile” sicuramente qualcosa la cambierei. Ma globalmente, e onestamente, mi ridico che di lui sarò sempre felice. Perché è un disco onesto, e ha rappresentato il mio 100% in quel periodo.
Mi ha permesso di vedere quello che volevo essere nel disco successivo, e quello che non avrei voluto essere più… E l’esercizio più bello, oltre a volerlo, è stato quello di lasciarlo andare dopo due anni di live.

Perché non potevo continuare a riproporre una fotografia di un’Elisa che sicuramente resterà dentro di me – perché antifragili si rimane sempre – soprattutto per rispetto a una nuova Elisa che sgomita, in attesa di avere voce e tempo per poter realizzare Sinusoide.

Sinusoide, sì.
Come avete capito, adoro i concept album. Ma proprio perché adoro i racconti, i fil rouge, i film con il finale ciclico. Sinusoide sarà un disco ancora più personale di Antifragile, e ce ne vuole.

“Bru, con questo disco ho paura di fare male… Che cosa dicono le carte?”
“Le carte dicono di andare… E’ nella tua natura raccogliere segreti. E’ nella tua natura affrontare ostacoli”

Per Aspera ad Astra… Continuo a dirmi.
Ho in mano una decina di canzoni, una metà cattivissima, una metà eterea.
Incompatibili ma perfettamente simmetriche.

“Io non so di cosa ti vuoi meravigliare… Sei sempre stata due cose insieme. Con occhiali o senza occhiali. Elegantissima o maschiaccio. Euforica o silenziosa. Credo che se non sei in grado di scegliere tra le due sponde… Ti conviene scegliere il fiume”

Mi conviene scegliere il Fiume.

Succede che durante il tour di Antifragile mi innamoro. Perdutamente. Impossibilmente.
Ma mi innamoro come non mai.
Mi innamoro della persona più sbagliata del mondo e questo amore fiorisce, e con lui me stessa. Cerco gli interruttori per spegnerlo, questo amore, ma per quanto schiacci compulsivamente il tasto OFF il mio cuore mi porta sull’ON.
Così, per giorni, mesi, anni addirittura.
Ed è difficile spiegarlo a me, figurati spiegarlo a chi mi sta intorno questo meccanismo, questo loop che si stoppa e riparte, questo amore fiorisce dentro di me in silenzio, morendomi spesso in gola.
E come in tutte le cose in cui ti trovi per la prima volta, un po’ come una beta tester di una situazione impossibile ma allo stesso tempo viva e reale, o decidi di soccombere o decidi di affrontare la situazione senza fare troppi morti né feriti.
Ho scelto di essere grata a questo amore impossibile.

E ho scritto.
Ho scritto tutto quell’amore che non ho potuto vivere ma solamente sfiorare, mi sono fatta tante di quelle foto per ricordarmi chi ero, che cosa meritavo e non meritavo, solo per non cedere all’ossessione, alla paranoia, allo sconforto che un amore nascosto può darti.
Per ricordarmi che quando ci si innamora è sempre una rivoluzione, una benedizione, ci si innamora anche di noi stessi, e io, giuro, erano anni che mi non innamoravo così di me.
Ho tenuto il cuore aperto, anche se è stato doloroso e a tratti straziante. Ho tenuto il cuore aperto e una testa sempre vigile, lucida e consapevole che mi ha permesso di vivere e di non attaccarmi troppo a quello che non avevo, ma a quello che avrei potuto avere.

E così, un bel giorno, quando ho toccato quel fondo che non credevo mai di raspare e le testuali parole “Non posso star più male di così” ho cominciato a non vivere più la vita degli altri, a prendere lentamente tutte le parti più belle di me e a staccarmi, andare lontano, scrivere… A vivere, sempre e comunque.

Ho deciso che farne un disco fosse il miglior modo di non dissipare tutto. Di dargli un senso, una nobile ragione, una sua forma di giustizia e giustificazione, creando un mondo dove qualche cosa era esistito veramente e non era stato vano, che era valso a qualcosa.
Dove quell’amore non sarebbe mai andato perso.

Ecco a chi sarà dedicato Sinusoide: a tutti quelli che amano e non lo possono dire. O non riescono a dirlo.
Vi abbraccio,

Eli

Papà, ti racconto perché ho detto no a un talent (e a molte altre cose)

Ciao papà,

Questa lettera è indirizzata a te, ma anche a tutti i miei parenti, amici, conoscenti e fan che almeno una volta nella loro vita mi hanno chiesto “Ma perché non vai a X-Factor? Perché non vai a un talent… Meriti di farti conoscere”.

Io vi ho sempre dato le mie spiegazioni, vi ho sorriso e gentilmente e vi ho detto che no, non l’avrei fatto perché non è tutto oro quel che luccica, che è contrario al mio percorso musicale, che non è detta sempre la formula talent = fama.

D’ora in poi, quando mi faranno la domandina, io, morissi qua, gli linkerò a voce questo articolo.

Prima di iniziare ti devo fare una confessione papà. Io un provino per un talent, a gennaio, l’ho fatto.

E adesso ti spiego anche perché.

Prologo.
Era un periodo di forte abbandono musicale. Ho fatto concerti bellissimi, altri in cui la gente mi ascoltava a malapena, ho girato l’Italia in treno, in auto, con o senza amici, e mi sono organizzata praticamente tutto da sola. Ero conscia dei rischi e del fatto che senza aver nessun tipo di aiuto e protezione sia le gioie e che i dolori che questo mestiere comporta mi avrebbero fortificato e mi avrebbero indebolito molto.

Ho girato l’Italia papà! Ho visto posti che mai mi sarei sognata di vedere con la mia musica, pagata poco, motivata tanto, solo con l’aiuto di bravi musicisti che hanno garantito per il mio stato di esordiente autoprodotta. Con un disco interamente finanziato tramite il crowdfunding! Anche se non sono proprio giovanissima. Ma non puoi sempre pretendere che la gente si faccia delle domande sul perché il primo disco è uscito alla soglia dei trent’anni.

Lo sappiamo solo noi, pap’s. Nessuno ci ha mai regalato niente, abbiamo incontrato dei cattivi maestri, abbiamo smesso di chiedere per i troppi no. Abbiamo fatto bene? Male? Boh. Il passato è veramente passato, e non si può più tornare indietro e riscrivere la storia.

E poi ho vinto il Premio della Critica a Amnesty – Voci per Libertà con “Scampo“… E quello è stato bello perché con la mamma sei arrivato il giorno della semifinale e io non ci speravo proprio, e quando ti ho visto dietro le transenne ti sono corsa incontro e praticamente ti sono saltata al collo. Vedere gli occhi orgogliosi e felici di Andrea, mio fratello, tuo figlio, mentre stringevo il Premio della Critica è ancora una delle immagini più belle che tengo nella mia videoteca dei ricordi felici e me la mando a loop quando sono giù.

Ma devi sapere altre cose. Che già in quel periodo c’ero e non c’ero. Che suonavo e non riuscivo a divertirmi, perché c’era sempre qualcos’altro a cui pensare. Che quando fai un disco ci si espone. E chi si espone si assume dei rischi. In questi rischi c’è il fatto di venire giudicati. E chissà per quale motivo nella nostra testa risuonano sempre più alte le critiche che i complimenti, o le soddisfazioni. Perché di persone sincere che gioiscono veramente ai tuoi successi ce ne sono poche.  Molte di più quelle che ti fanno vedere dove sbagli.

Mi ricordo di un giorno in cui ho portato il premio da un mio grande amico. Non era stato presente la sera della premiazione, anche se ci tenevo tanto che ci fosse. L’ha guardato, mi ha detto un formale “Complimenti” e poi ha continuato a fumare e a chiacchierare con gli altri suoi amici.

Queste sono le cose per cui ti abitui a non entusiasmarti troppo. A ridimensionare le cose. Così eviti di starci troppo male. E impari a vivere tutto in maniera più distaccata e disillusa.

Devo dirti papà, che fa un po’ schifo questa cosa. Io non sono così. Me l’hai insegnato tu.

Papà, ci dicono che dobbiamo fare musica soprattutto per noi stessi. Che non dobbiamo guardare le mode, e che fondamentalmente la differenza la fanno i soldi e/o le conoscenze, che la strada è lunga, e che prima di crederci gli altri ci dobbiamo credere noi.

E la credo tuttora così, e penso tuttora che la musica sia la mia vita. Ma tu continua a suonare per mesi senza trovare più stimoli. Senza gioia, senza aver voglia nemmeno di toccare la chitarra o provare gioia per un pezzo di altri. Cominci un po’ a morire dentro e a preoccuparti perché il disco va bene, ma tu non riesci davvero a vivertelo bene. L’arte, per quanto si faccia per sé stessi, ha bisogno di essere accolta e ascoltata. Hai bisogno di sentire un po’ di tepore sulle dita, un po’ di caldo nella pancia, un po’ di emozione nella voce.

Ti manca una rete di supporto, soprattutto quando le persone che hanno creduto in te ti hanno (inconsciamente? O no?) abbandonata. Tutta la forza e l’energia che ti ha spinto avanti l’hai buttata fuori, e non ti arriva niente.

Arrivano i dubbi su te stessa, sul tuo talento, cominci a cambiare il live, ad aggiungere, a mettere in dubbio tutto.

Arrivano nuovi amici che credono in te, ma tu hai troppa paura che anche loro ti abbandoneranno.

E così ho smesso di parlare. Di chiedere.

La proposta.
Mi arriva la proposta di un talent. Via messaggio privato su Facebook. E la prima reazione è quella di rispondere malamente e dire “Guarda che io sono quella che ha fatto una maglietta con scritto *Perchè non vai ad Amici?* visto che tutti glielo chiedevano”.

Poi ci penso. E penso al fatto che il prossimo disco ha bisogno di più fondi per creare un prodotto di qualità, dall’audio al video, che ho bisogno di una squadra e che forse un po’ di aiuto dal medium televisivo possa darmi una mano. Ma sono molto, molto combattuta. Ne parlo con amiche cantautrici che l’hanno fatto.

“Fallo, io sono uscita dopo due puntate. Ha fatto girare il nome e ho potuto pretendere un po’ di più sul cachet. C’è il rischio che possa farti del male, ma tu hai già un percorso definito e sai cosa vuoi, non credo che possa arrecarti danno”

“Nel mio caso mi ha danneggiata… Pensa che c’erano dei locali che sapendo che l’avevo fatto non volevano farmi suonare. Ora forse è diverso… Dipende tu cosa vuoi, intanto è un provino… Fatti la domanda: a te, un talent, cosa serve? Per carità, io poi ho fatto Sanremo… Ma non è che poi abbia fatto tanto la differenza”

“Ficcati in testa che pubblico televisivo non è uguale a persone che comprano i tuoi dischi, o vengono ai tuoi concerti. A me quel talent ha bloccato per 6 mesi e non potevo fare nulla. Ho visto amici a cui erano state promesse aperture importanti che poi son svanite perché è arrivato quello dell’anno dopo ed era più fico. Non è musica, è spettacolo televisivo. Quelli della tv sono cinici. Mi ha fatto male fisicamente”

“Se vai a fare un talent ti prendo a calci nel culo”

Il provino.
E’ un pomeriggio uggioso, a Milano Lambrate. Ho un numero sul petto e compilo una liberatoria. Mi hanno chiesto di preparare 10 pezzi, in italiano e in inglese.

Sono con la penna e in mano e ancora prima di entrare so già che con i talent non ho niente a cui spartire.
Oh papà, è proprio vero. A certe cose devi proprio sbattere il naso davanti per avere la riconferma che non fanno per te.

Nel foglio di presentazione dell’artista che mi fanno compilare c’è un 30% di domande sulla mia carriera artistica e un 70% sulla mia vita personale. Sulle persone che mi hanno ostacolata, chi è la persona più importante della mia vita, se se sono fidanzata, se ci sarà qualcuno a fare il tifo per me durante le puntate…

Ora. Io uso questo blog, i social, i miei concerti, la mia musica per raccontare quello che voglio della MIA vita. L’ho messo in conto, di espormi, quando ho cominciato.

Ma questo non significa che debba farlo la mia famiglia. Ci sono cose talmente preziose che io voglio che rimangano al sicuro, protette con le mie spalle, difese con le mie unghie.

In tutte queste cose ci sei anche tu. E non vi darò certo in pasto a chiunque.

Un conto è essere giudicata per la musica che faccio, un conto per la vita che conduco. Non ho bisogno di un pubblico che compatisca le mie vicende personali.

Papà, ho fatto il provino. Ho cantato due canzoni. E la domanda che mi hanno fatto alla fine è stata: “Perchè hai scritto NON LO SO su Sei sposata/Fidanzata?”

Mi sembrava di essere al colloquio di lavoro per entrare a Confindustria, quando mi chiesero se avevo intenzione di fare figli nel breve periodo.

Dopo.
Ho ricominciato a studiare per il diploma di chitarra, almeno ci sto provando. Ho fatto un altro lavoro per dimenticarmi completamente della musica, per poi rendermi conto che non posso fare a meno di lei! Ho ricominciato a suonare e a rimettermi in gioco. Ci provo. Come al solito in situazioni più belle, in altre in situazioni meno carine.

La vita è sempre complicata papà, e ci saranno sempre i buoni e i cattivi, e a volte i cattivi sono talmente cattivi che ti convincono che non sei brava abbastanza per continuare, ma continuo a credere che se vuoi fare strada e non hai santi in Paradiso devi

  • Continuare a fare buona musica
  • Continuare a essere gentile e dare spazio agli altri
  • Continuare a fare il tuo lavoro in maniera onesta e professionale

Io lo so che ci sono le scorciatoie, che alcuni giorni starò di merda per un’occasione sfumata o perché non ho l’amico giusto, che a volte non basta solo fare buona musica ma anche quell’Altro che forse io non ho o non sono in grado di fare. Lo so che suonerò in tanti posti dove la gente starà con il cellulare in mano e non sarà in grado di emozionarsi perché è troppo distratta dai troppi stimoli, come pure so che ne colpirò magari 2 su 100.

Lo so che farò una cosa e non andrà bene, poi la cambierò e comunque non andrà bene. Farò un disco e mi diranno “Perchè non fai cover?” e quando farò cover diranno “Basta con le cover!”. Mi chiederanno tanti più post con la mia faccia e meno in cui dico quello che penso. Cerco sempre e comunque, nonostante la macchina non mi piaccia, che il messaggio e la mia essenza non si sporchino.

In questo mondo di views, di amici influencer e di like continuerai a dirmi

“Dovresti fare Sanremo. Meriti che tante persone ti ascoltino!”

E ci saranno giorni in cui sarà stanca, ma voglio continuare a essere me stessa, con le mie battaglie da affrontare. Ho solo bisogno che tu creda nelle scelte che ho fatto, che non mi risparmio mai e che basta davvero poco, tipo venire a un mio concerto, farmi ascoltare ai tuoi amici, consigliarmi e darmi un tuo parere sulla serata, e io farò di tutto per migliorarmi, perché sai che sono una secchiona precisa di prima.

Continuerò a svegliarmi la mattina e a pensare al disco nuovo, al tempo che voglio dedicargli rispetto al tempo che non ho, affaccendata in mille lavori per finanziarlo prossimamente.

Perché è la mia Vita papà, e magari tu vorresti un grande pubblico. Credici con me come ti ho scritto, e magari le persone smetteranno di pensare che non serve un talent per dare luce a dei giovani talentuosi, ma soprattutto andare ai concerti, ascoltarli, e investire su di loro.

Ti voglio bene papà,

Elisa