7×01 “Nove Mesi”, Antifragile

“Guardando il calendario mi sa che uscirà a fine maggio. O a inizio giugno”.
Prima di riprendere ad ascoltare l’ultimo pezzo di batteria editata che Stefano sta ritoccando, me ne vado in bagno.
“Settembre… Maggio”.
Conto con le dita, mentre faccio pipì.
“Settembre, ottobre, novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio. Nove mesi, come un bambino”.
Sorrido sardonica. Ho perso il conto di quanti amici nel giro di questi anni abbiano deciso di sposarsi e mettere su famiglia. Ne è prova tangibile la mia bacheca Facebook: nel 2008 era tutto un cocktail, un concerto a Roma, una festa universitaria, adesso escono foto di torte nuziali, fidanzamenti, pargoli annunciati o in crescita.
La bacheca di Facebook invecchia con me, è un dato di fatto.

L’ultimo articolo che parla del mio album è datato 27 novembre 2015. E nel frattempo Davide “Eulo” ha suonato le batterie vere, registrate ed editate con tanta cura e autismo da Stefano.
Ma soprattutto è scorsa un’immensa quantità di mia Vita in questi mesi. Molta più degli anni precedenti. Dolore, amore, ansia, paura, divertimento. Tutto a velocità 4x. Concerti, concerti, tanti concerti. Un’emorragia continua.

Perché non più scritto? Pigrizia. Censura dei miei pensieri e sentimenti. Paura.

Quando le cose non vanno esattamente come voglio tendo a stare in silenzio.
Alcune cose me le devo proprio scordare.

Scordare (1) = dimenticare
Scordare (2) = privare dell’accordatura il proprio strumento

“Mi sento un disco rotto a dirvi le stesse cose che non vanno, amiche”.
Un disco rotto.

Un’altra risata sardonica.

Ma un’artista, una persona, deve fare i conti anche con i suoi giorni di secca.
Secca, quando non scorre nulla. I mesi-palude in cui sembra in cui non si muova nulla, anzi, ti sembra di sprofondare più giù.
Quando non hai il tempo di fare musica per divertirti, ma diventa una produzione seriale in fabbrica.
Quando non ti permetti una pausa perché il tuo cervello non te lo consente.
Quando butteresti nel pattume mesi di lavoro.
“Sei cambiata. Questo disco ti sta cambiando”
“O sono sempre stata così?”
Una maschera di buona educazione. Se me la tolgo è la fine, è una furia distruttrice.

Cadere, rialzarmi, cadere.
L’album, l’album, l’album.
Forza, energie, stress.
Le mie canzoni, la mia zattera su cui aggrapparmi quando nessun luogo è sicuro.
Fino a perdere le voce, fino a consumarmi l’anima.
Accettare che è giusto sbagliarsi.
Mostrare anche il lato oscuro. Se lo metti in gabbia, diventerà un gigante sempre più mostruoso.

“Se ti liberi tu, liberi anche noi, che siamo tue amiche. Noi ti vorremo comunque bene”.
“Tu sei tutto fuori che un disco rotto. Sei solo tanto, tanto, tanto stupida”.

Allora mi lascio andare: forse mi sono persa. Forse mi sto distruggendo.
O forse mi sto davvero liberando. Si va avanti, adesso.

“Parole al Vento” live a BoxLiveSessions!

E’ difficile spiegarvi quanto “Parole al Vento” valga per me, e quanto valga la persona per cui l’ho scritta. Nel disco a cui sto lavorando la la sentirete diversa: piano, voce e pochissime cose in più. Quasi per scommessa un giorno ho chiesto a Gianluca Gallo di arrangiarla per chitarra acustica. Mi diverte e mi affascina vedere come ogni musicista metta del suo in qualcosa di così fortemente intimo e personale. Giangi poi è un tenerone piacione e quindi gli risulta anche facile.

L’intervista e il format è a cura dei ragazzi di boxlivesessions, e in ogni puntata-chiacchierata coinvolgono amici cantanti, musicisti, scrittori, artisti. Ho avuto l’onore di partecipare alla sesta, in una mattinata freddissima ad Angoli di Mondo a Noventa Padovana (Pd).

alessandro ragazzo_elisa bonomo
(Alessandro Ragazzo and I con i cappotti scambiati, appena dopo la scoperta del potentissimo Pino Mauro)

Non voglio anticiparvi nulla, ma per i più curiosi parlo un po’ dell’album in uscita e dei miei esercizi di vulnerabilità. Spero vi piaccia!

6×01 Perché chiamerò il mio album “Antifragile”

La prima volta che sentii parlare di resilienza fu ad una conferenza. Si parlava di uno studio fatto su alcuni minori che avevano vissuto forti condizioni traumatiche: terremoti, violenze, guerra, abbandono, maltrattamento, abuso sessuale.

Alcuni di loro non manifestavano un danno biologico in maniera automatica. Anzi, in una certa percentuale non presentavano nessuna conseguenza psicologica, nemmeno nel lungo termine, sebbene fossero stati vittime di ignobili sorprusi.

Erano bambini resilienti. Resilienza, parola presa in prestito dalla metallurgia, è la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita di fronte alle difficoltà. Come un metallo resiste alle forze che vi vengono applicate.

La cosa mi affascinò, e mi colpì osservare come il nostro corpo possa reagire bene a dei carichi emotivi che visti da fuori potrebbero sembrare insostenibili. Mi colpì osservare che quei bambini avevano saputo assorbire quelle esperienze e restituirle in forma non negativa. Non li invidiavo, li ammiravo. In una forma del tutto inconsapevole avevano saputo ribaltare il punto di vista sulla situazione ed uscirne migliori.

Perché si cresce e tutto sembra complicarsi? Perché quando cresciamo siamo guidati più dalla paura e dai mille effetti che potrebbero avere i nostri comportamenti verso una determinata cosa/persona? Per i lacci. Le reti. Le relazioni che si stringono. Più si va avanti e più la maglia si allarga e al nostro “io” si aggiunge un contesto che ci stiamo costruendo via via. Eppure quante volte il contesto che ci costruiamo ci soffoca, non ci sta più su? Quante volte abbiamo la forza di abbandonarlo per qualcosa che si avvicina di più alla nostra idea di felicità? Quante volte ci manca quella forza ed è solo un modo per scappare da noi stessi? Quante volte pensiamo sia sbagliato il contesto, e in realtà siamo noi ad aver bisogno di essere ritarati? Uh, quante domande ti fai, Elisa.

La seconda volta che sentii parlare di resilienza si era già evoluta in antifragilità. Ero in un gruppo Facebook dove tra copywriter ci si scambiava link e informazioni, e uscì fuori un articolo su un libro di Nicholas Taleb, filosofo, matematico e saggista libanese. Il titolo “Antifragile. Prosperare nel disordine” e mi incuriosì la recensione.

Sappiamo che la nostra incapacità di comprendere a fondo i fenomeni umani e naturali ci espone al rischio degli eventi inaspettati. Ma l’incertezza non è solo una fonte di pericoli da cui difendersi: possiamo trarre vantaggio dalla volatilità e dal disordine, persino dagli errori, ed essere quindi antifragili. Il robusto sopporta gli shock e rimane uguale a se stesso, l’antifragile li desidera, e se ne nutre per crescere e migliorare.

L’incertezza, lo stress, la fragilità. Ho dovuto fronteggiare spesso come quasi trentenne queste situazioni, un po’ per mia causa, un po’ per cause di forza maggiore.

Alcune cose traggono beneficio dagli shock, prosperano e crescono quando sono esposte a mutevolezza, casualità, disordine e fattori di stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Ciò nonostante, a dispetto dell’onnipresenza del fenomeno, non disponiamo di un termine che indichi l’esatto opposto della fragilità. Per questo parleremo di antifragilità. L’antifragilità va oltre il concetto di «resilienza elastica» e di robustezza. Una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima: l’antifragile dà luogo a una cosa migliore. Questa proprietà sottende tutto quanto cambia nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico.
L’antifragilità ama la casualità e l’incertezza, il che significa anche amare gli errori, o meglio una particolare classe di errori. L’antifragilità possiede una proprietà unica nel suo genere, che ci permette di venire alle prese con l’ignoto, di fare certe cose senza capirle e di farle bene. Permettetemi di essere più drastico: siamo molto più bravi a fare che a pensare, grazie all’antifragilità. Preferirei mille volte essere stupido e antifragile che estremamente intelligente ma fragile. L’antifragilità va oltre il concetto di «resilienza elastica» e di robustezza. Una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima: l’antifragile dà luogo a una cosa migliore. Questa proprietà sottende tutto quanto cambia nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico.

E poi tante altre belle considerazioni sul fatto che non sempre una crisi ha una accezione negativa, che un evento negativo che sconvolge la tua serenità ti costringe a ricostruire un equilibrio, che lo stress aiuta spesso a creare di più (!).

Il mio concetto di antifragilità è la consapevolezza che nonostante tutto io sarò sempre io. Saprò sopravvivermi. Imparerò dai miei successi e dai miei errori. Dai giorni in cui ho difficoltà a stare al mondo, dai giorni in cui nonostante tutto mi sento grata alla vita. Qualsiasi cosa accadrà saprò darmi una scrollata di spalle e camminare diritta a me.

Per qualche mese ho pensato di cambiare il nome dell’album, da “Antifragile” a “Non mi somiglio per niente” vista la grande differenza tra questo lavoro e “Terzo Tempo” con La Cantina dei Bardi, e invece, ora come non mai, lo terrò.
L’ho sposato come mio modo di vivere. E’ impossibile resistere a tutto, è deleterio spezzarsi in continuazione. Io so che posso spezzarmi in qualsiasi momento, ma so anche come ripararmi. E a essere d’aiuto agli altri quando si spezzano.

Quante persone dicono la verità solo quando sono vulnerabili. Io li trovo di una bellezza sconvolgente, perché non hanno filtri.
Mi sento fuori posto se non ho un lavoro regolare e sono tornata a vivere dai miei dopo anni di indipendenza economica? Sì. Ma non potevo fare altrimenti. Non posso accontentarmi di una realtà rassicurante per gli altri e che a me puntualmente fa venire l’orticaria.
Ora che l’ultima carta da gioco è stata gettata sul tavolo, l’ultimo velo è stato tolto dall’opera io mi sento scoperta, vulnerabile, più che mai incerta. Cammino sopra un campo minato, e tuttavia non sono ancora saltata per aria. Ho capito di essere una non-lineare, ma tuttavia onesta. Non so cosa mi accadrà. Non lo posso prevedere.

Questo album è un esercizio di imperfezione. Non vi farò vedere quanto suono e canto bene, non vi farò vedere quanto ci so fare con gli arrangiamenti. Sarò io. Non vi dirò palle. Vi dirò quando sto bene, quando sto male, quando ho voglia di ridere, quando ho voglia di piangere. Sarò umana. Mai come ora son stata così sincera.

5×01 “Ciò che deve accadere accade”, Antifragile

Novembre 2015

Sono stati giorni di entusiasmo e tempesta. Di panico e serenità. Di sconforto e impotenza, ma anche di incontri e scambi intensi. Sembra una banalità, ma scegliere di vivere facendo ciò che si ama migliora di molto i rapporti sociali. E migliora la qualità dei discorsi a tavola. Nel mio caso si tratta di una vera e propria forbice: quando ho uno stipendio fisso mi lamento, divento un’ombra, sono circondata da persone che mi infastidiscono, adesso che lotto per arrivare alla fine del mese sono circondata da persone più o meno lontane che mi vogliono bene senza chiedere nulla in cambio.
La mia indole è sempre portata a ripagarli in un qualche modo, ma per ora posso offrire loro la mia amicizia e le mie parole. O del cibo, molto cibo. Sembra che a loro vada bene comunque.

L’immagine che più mi rappresenta in questo periodo mi raffigura sorridente seduta in cima a un burrone. C’è pericolo e c’è vento, ma io sono serena, aspetto, sento dei passi che si avvicinano. Sono distanti ma in qualche modo mi proteggono. Io non posso tornare indietro, né saltare. Posso solo aspettare e dire la verità, non riesco, non so più mentire.

Sorrido sempre: quando sono nervosa, quando mi imbarazzo, quando voglio esserti vicina. Le lacrime le tengo per me, la mattina presto quando mi sveglio, quando penso a un amico che non c’è più, la notte quando ripenso alle ingiustizie e le dissonanze quotidiane.

In tutto questo grande rumore di fondo il disco cresce, e ci avviciniamo alla fine della pre-produzione. Mancano solo due pezzi, “Parole al vento” e “Domani inventerò“. Ogni volta che ritorno in studio, penso di avere una grande fortuna: in quegli interminabili pomeriggi e sere premo il pulsante “pausa” alla vita. Scappo, gioco, trovo il suono e la dimensione ideale dei miei pensieri.

“Per me rappresentare è vivere di più… E’ aggiungere, è idealizzare, trasfigurare. Aggiungere emozioni alle emozioni, passioni alle passioni… Dove finisce la rappresentazione, finisce la realtà” (Monica Vitti)

Il problema principale è tornare a casa. La macchina che si rompe, i lavori, i soldi, gli ospedali, le prime rughe d’espressione, il primo capello bianco, perciò la conseguente lotta ai segni dell’età, alle prime rughe superficiali e agli inestetismi della cellulite, oddio i 30, studio poco, le cose che perdo, le cose che dimentico… Penso a così tante cose che è difficile ordinare tutto in un discorso logico.

Mi ero preparata un bel discorso, sapete, sul ruolo del produttore. Su come un’intuizione geniale possa far diventare un pezzo reggae una hit disco sbanca-classifiche e lanciare gruppo e relativo disco nell’Olimpo della musica internazionale. Ma poi al solito dimentico la retorica e parlo del superfluo.

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Chris Stein, il chitarrista dei Blondie, lavorava da due anni su un giro reggae dal titolo Once I had love. Il gruppo la suonava spesso ai concerti, anche in chiave rock. Quando arrivarono in studio per registrare l’album Parallel Lines, il produttore Mike Chapman ascoltò il giro di accordi e l’incipit, rimanendone colpito. “Once I had a love and it was a gas… Soon turned out had a heart of glass. Questa è una potenziale hit. Ma il mercato americano non accetterà mai il reggae. Riarrangiamola in chiave disco, è questo quello che va ora. E bisogna assolutamente cambiare titolo”. Nacque Heart Of Glass. Il resto è storia.

Riascolto le canzoni e gli arrangiamenti, e penso che quest’album sarà come me. Arrabbiato, melanconico, dolce, ironico. Io, che rido tanto, ho imparato a ridere e far ridere per sopravvivivermi. Mi serve come balsamo per togliere le croste dell’umiliazione, della vergogna, dell’inadeguatezza. Le ferite rimarranno sempre, ma la risata mette tutti sullo stesso piano, e per questo l’adoro. Avrò sempre il desiderio di farmi piccola piccola come un fagotto per non farmi notare, ma il ridere di me mi consente una piccola violenza, il mettermi in gioco, il non implodere in me stessa.

Il produttore è qualcuno che vede oltre te. Mette ordine nei tuoi pensieri musicali disordinati e li canalizza in un’unica direzione che sembrava impossibile. Sa trovare il diamante in un ruvido e grezzo pezzo di pietra chitarra e voce. Aggiusta, lima, cesella, cambia, stravolge dove necessario.
Non deve essere una scelta casuale. La ricerca del produttore può essere anche lunga perché devi dargli fiducia totale. Il produttore è un suono, un gusto particolare. E poi, proprio perché la scelta è stata fatta a monte, devi mettere pochissima bocca o nessuna nelle sue scelte artistiche.
Lui/Lei ha il dovere di fare suonare l’album da paura, tu hai il dovere di consentirgli di toccare i tuoi vestiti, le tue parole, il tuo corpo per fare uscire quello che realmente sei, e che inconsapevolmente non conosci.

Penso a Monica Vitti, alla sua voce fragile, roca, eppure sua, distinguibile tra milioni di sussurri e grida.
Penso a me. Non sono Steve Vai. Non sono Christina Aguilera.
Ad un certo punto qualcuno ci prende per mano, e bisogna avere la forza di camminare, nonostante tutto.
E allora lavorerò sui miei difetti, perché proprio in quelli sono io.

Elisa Erin Bonomo il 7 Novembre a Lucky Music per Roland

Cominciamo la settimana con una buona notizia! Il 7 Novembre 2015 sarò a Lucky Music (Milano) in veste di dimostratrice per Roland Italy per il 24° anniversario di apertura del negozio. Non stop dalle 10.00 alle 19.30 a suonare loopstation, pedaliere e multieffetti per la voce. Yay!
L’altra volta è finita così:

PROMOZIONI
– Sconto del 5% su qualsiasi acquisto in entrambi i giorni,
– Centinaia di prodotti in sottocosto con sconti fino al 50% da ogni reparto per tutta la settimana (in negozio e online),
– Finanziamenti in promozione a interessi zero fino al 12 dicembre!

Evento Lucky Music

4×01 “Sabotaggi”, Antifragile

Se dovessi scegliere un verso che mi rappresenta di più nell’album in lavorazione, sarebbe sicuramente “Lorenzo, o come tutti dicean Renzo/ studiava di notte con l’ansia/ di non essere mai abbastanza”.

A parte il riferimento ai Promessi Sposi del trio Lopez-Marchesini-Solenghi di cui sono letteralmente malata (un altare ad Anna Marchesini, subito), “Renzo e Lucia” è la storia dei due personaggi manzoniani trasportati al giorno d’oggi. Mi sono domandata: come potrebbero vivere? Che mestiere potrebbero fare? Chi sarebbe il Don Abbondio della situazione? E soprattutto, vorrebbero ancora sposarsi al giorno d’oggi?

Nel mio testo Renzo è un “jazzista di un certo livello e modesto impiego” (fa due lavori, cassiere in una pizzeria e garzone in una salumeria) mentre Lucia è “ballerina di seconda fila” che per arrotondare fa la commessa. Vivono in un piccolo appartamento e sono troppo impegnati a sopravviversi per capire se si amano davvero. Sono due persone che vogliono/volevano intraprendere una carriera artistica, ma nell’attesa di sfondare si sono trovati un’occupazione diversa da quella che desideravano.

Non ho voluto esplicitare per quale motivo i due non riescano a guadagnarsi da vivere rispettivamente come musicista e ballerina, i motivi sono molteplici, dalla sfortuna a difficoltà di varia natura, al motivo che preferisco in questo periodo.

Renzo e Lucia sono due SABOTATORI. Un po’ come me.

“Sopra o sotto?” (cit.)

Avete presente il film “Inside Llewin Davis – A proposito di Davis” dei fratelli Coen? Per chi non l’avesse visto racconta la storia di Llewyn Davis, musicista folk di talento, che dorme sul divano di chi capita, non riesce a guadagnare un soldo e sembra perseguitato da una sfortuna sfacciata, della quale è in buona parte responsabile. Davis è un antieroe puro come tanti altri personaggi dei Coen, non passa ai provini perché non è un leader, tergiversa, si vede sfilare davanti colleghi che reputa meno bravi di lui.
Anche Llewyn Davis fa parte della grande categoria dei SABOTATORI. Scappa, sceglie di non scegliere.

Ho sempre promesso di essere estremamente sincera sul come mi sento in questo periodo. In queste settimane mi sono fatta prendere letteralmente dal panico, influenzare da migliaia di fattori esterni. Dal fatto che non ho un’etichetta discografica, che non ho un booking, che dovrei fare più gente ai concerti, che non ho network etc.etc. E spesso faccio così: parto con grande entusiasmo e poi quando le cose cominciano a farsi tangibili comincio a vedere in ogni occasione un ostacolo, una difficoltà, qualcosa che mi farà stare male. Mi spavento.
Il mio istinto di autoconservazione comincia a pensare che le cose sono sempre più difficili di quello forse sono, che devo prepararmi al peggio. Ho paura di sprecare tempo e fiato, e il paradosso è che nel momento stesso in cui lo penso sto effettivamente sprecando tempo ed energia in questo tipo di macchinazioni.

Da “La paura più grande” post lungo sul blog di Zerocalcare, uscito il 7 Aprile 2015

Sono una SABOTATRICE quando scelgo di non scegliere. Quando devo per forza complicare il gioco. Quando opto per una cosa che non mi piace, perché posso spartire il mio fallimento con la costrizione sociale. Ed è molto più facile.

Con Stefano siamo a 5 brani su 13 pre-prodotti. Nel gergo dei musicisti la pre-produzione è come la brutta copia di un tema: dopo aver messo a posto la struttura della canzone cominci a capire che ritmo potrebbe avere la chitarra, che groove la batteria, il basso. Si sgrezzano gli arrangiamenti.
Ho passato due giorni tentando di vedere il marcio anche lì. E poi mi sono accorta di una cosa: giorno dopo giorno, Stefano butta giù le batterie e i bassi e mi faccio contagiare dalla sua esperienza e bravura. Comincio ad avere idee sugli arrangiamenti, una visione d’insieme che mi mancava. Sulle batterie, io che con la ritmica non sono mai andata d’accordo, ma robe brutte tipo che a momenti non so cosa sia una cassa e un rullante (buuuh).

Tra tanti aspetti, due cose in musica ti fan capire se sei cresciuta: se riconosci gli errori tecnici e se cominci a “sentire” quello di cui prima non ti accorgevi. La crescita è accorgerti di quello che prima non percepivi.

Mi sono resa conto di essere una SABOTATRICE. Ho tanti amici come me, e strano a dirsi, sono le persone più intelligenti e dotate che io conosca. Sono persone che hanno grandi difficoltà ad amministrare la loro forza, e si perdono. Che spreco, direbbero i più.
Io no. E’ estremamente difficile andare contro noi stessi, ma riconoscerlo intanto è un bel primo passo. Buttatelo fuori, fate un bel coming out e poi prendetevi un bel gin tonic con un amico. Che di gente-ruspa sgrammaticata ne è pieno il mondo, ma voi servite veramente a qualcosa.

Perchè per essere musicisti bisogna essere forti

Ho provato tante volte a chiedermi perché mi piaccia fare musica. Nonostante mi faccia soffrire come un cane e mi faccia fare una vita che la clausura in confronto è uno Spring Break. Perché diciamolo, essere musicista non è una passeggiata.

“Devi essere forte”
E’ vero, l’artista è fragile, perché l’esigenza di fare arte nasce da una mancanza. Ma il termine non deve essere scambiato con debole.
Perché devi essere forte? Enucleiamo insieme le varie fonti di disagio.

Per palati trash finissimi.

1- La GGENTE

Come può la base principale dei tuoi guadagni futuri essere fonte di cotanti problemi?
Attenzione, ho detto GGENTE, non Persone.
La GGENTE solitamente non è dotata di tatto, intelligenza e un minimo di empatia.
La GGENTE è composta da individui insoddisfatti e delusi dalla loro esistenza che senza colpo ferire scaricano su di te le loro invidie, rancori e stupidità. Live o in podcast. Telematicamente o con coltellino a serramanico.
Solitamente la GGENTE è quella che non viene mai a un tuo concerto, non ha mai ascoltato una tua canzone anche per sbaglio, non ha mai visto un tuo videoclip nemmeno di spalle (sia mai comprare un tuo album!), è in pole position sul divano quando parte un talent e sa sempre regalarti le parole giuste. Sa se sei troppo giovane o troppo vecchio. Sa se sei bravo o no. Sa tutto.
Certo, la sua visione della discografia dietro a uno schermo sgranocchiando delle Cipster sicuramente è molto più attinente della tua che stai a sbatterti per trovare date nei locali. Già già.
Ah, loro sono quelli che solitamente dicono “Sì ok musicista, ma che lavoro fai?” o “Ma non è un lavoro serio, non guadagni“. Gettonatissime nei loro discorsi da jet set mondano a Roccella Jonica.

Loro ti osservano. (Vedi foto successiva).

2 – LA SOCIETA’ ODIERNA

Una società stessa che considera la cultura una pezza da piedi svaluta tutto l’indotto ad essa collegata. In Italia esistono pochissimi esempi di luoghi nati esclusivamente per fare concerti, figuriamoci quelli rock. I concertoni grossi? Stadi e palasport. Non propriamente la prima destinazione d’uso, per capirci.
Non andiamo poi nel piccolo, pub con l’acustica di un gabinetto in Autogrill e palchi tenuti su con due bimattoni. Ero presente.
I locali che chiudono, l’assenza di palchi medi.
Le proposte delle radio commerciali? AHAHAH.
Non parlo della SIAE perché sarebbe circonvenzione d’incapace.


E’ accaduto davvero.

3 – GLI ADDETTI AI LAVORI

Etichette discografiche, promoter, agenzie di booking, agenzie di comunicazione, tour manager, produttori, fonici, etc. a volte improvvisati senza nessun tipo di background/formazione adeguata. La Qualunque può dichiararsi “production sound mixer” senza saper nemmeno sapere accendere un sound mixer.
La Qualunque può dichiararsi ufficio stampa mandando qualche e-mail a delle webzine chiedendo di recensire il disco del loro pupillo. Fanno 2000 euro, grazie.
Talent scout che ti contattano via Facebook dicendo “Io posso aiutarti, ho una villa in Sardegna, vieni a farmi compagnia“.
I concorsi canori con 150 euro di tassa d’iscrizione con giuria di qualità che se lo vinci fai Castrocaro-Sanremo in meno di due ore. Vitto, alloggio, viaggio tuo e della giuria di qualità a tue spese.
Soldi spesi -> tanti. Soldi guadagnati e visibilità -> zero.

L’unico concorso per cui andrei in rosso.

4 – I MUSICISTI

Quelli bravi ma inaffidabili e incapaci di interagire con la vita vera. Quelli mediocri che prendono una critica costruttiva come un’offesa alla madre e non ti rivolgono più la parola. Quelli che pacconano a 15 minuti dal concerto, quelli che se c’è un problema che ti riguarda ovviamente non te ne mettono al corrente ma esternano i loro malumori con tutti gli altri del gruppo ad eccezione di te. Quelli che “ti faccio sentire un pezzo mi dai un parere?” e non rispondono o ti arrubbano l’idea. Quelli che stai registrando l’album con relativa promozione e scappano a Londra senza avvisarti dopo 5 anni di intensa collaborazione. Quelli che non ce l’hanno fatta per qualche motivo (il più delle volte per colpa loro) e nell’attesa della loro grande occasione di rivalsa cercano sempre salire nel carretto dei vincitori. Quelli che si fanno molti selfie mentre tu cerchi di sistemare una canzone. Quelli che se ti va bene non rispondono più alle tue chiamate di punto in bianco (ma il loro status su WhatsApp e Facebook è perennemente online), se ti va male riescono pure a spillarti qualche soldo.
Per ogni celebrità ce ne stanno cento nell’ombra. Che solitamente rosicano.

Ero rimasto senza benzina, avevo una gomma a terra, non avevo i soldi per prendere il taxi, la tintoria non mi aveva portato il tight, c’era il funerale di mia madre, era crollata la casa, c’è stato un terremoto, una tremenda inondazione, le cavalette, non è stata colpa mia, lo giuro su Dio!

5 – TE STESSO
Sei anche tu un musicista e sei pieno di paranoie. Spesso non fai mai abbastanza, devi fare di più, non suoni bene, non canti bene, non sei mai stato in grado di fare il tuo lavoro, non sei più in grado di scrivere, hai perso l’ispirazione, è colpa tua, è colpa degli altri, è colpa dello Stato, hai finito i soldi, hai il male di vivere, hai paura di essere felice perché hai paura di perdere la tua vena poetica, non ti senti capito, ti hanno messo pochi like sul video, hai avuto una giornata in cui hai dovuto interagire con la GGENTE, la SOCIETA’ ODIERNA, un ADDETTO AI LAVORI e un MUSICISTA.


Io in un momento di concitata euforia.

Sì, tante volte mi sono chiesta perché non potevo nascere con la voglia di mettere giù piastrelle o saldare tubi. Non ho scelto di essere una musicista, ci sono nata. E come tutte le cose che ami ha i suoi lati negativi (non che fare la social media manager mi abbia regalato alcune chicche come “questa pagina Facebook la gestisce meglio mio nipote gratis” o “vorrei una foto profilo che si illumini a intermittenza“).

La cosa che si avvicina di più a quello che provo quando faccio musica è paragonabile a quando ti innamori follemente di qualcuno e senti che lo stai per perdere. Allora sei disposta a viaggiare in treni sporchissimi e sovraffollatissimi, a prenderti pioggia, vento, neve, a usare i cessi dei locali come camerino per vestirti e truccarti, saltare pasti, dimenticare di idratarti, dormire poco e male, ammalarti, andare in miseria. Perché? Razionalmente tutto sembrerebbe una cazzata.
La musica è l’unico posto dove sto al sicuro (cit. Licia Missori), dove sto bene. I raggi gamma dei talent, della ggente, della società odierna, degli addetti ai lavori, dei musicisti, di me stessa arrivano sempre. A volte rimbalzano sotto lo scudo delle parole di amici musicisti seri e sinceri, a volte colpiscono e fanno tanto male.
Solo che c’è una cosa che chi non è innamorato non capisce: non si può vivere altrimenti.
Io ti amo, Musica.

3×01 “Domani inventerò”, Antifragile

“Ai confini della noia, ci sono tonnellate di idee. Io non guardo la tv, non gioco con gli amici. Lascio semplicemente che il tempo scorra”

1 giugno 2015

Padova, esterno notte. Terrazza di un grande palazzo. Campo lungo. Si intravede in controluce una ragazza  seduta per terra appoggiata ad muro.
Controlla il telefono, osserva il cielo in lacrime.
Una chiamata persa. E’ Chiara, anima affine. Stessa indole, stesse paranoie, stesso modo di vedere le cose.

Nello stesso momento

Città imprecisata, esterno notte. Particolare su una mano che infila una chiave in una toppa. Si allarga l’inquadratura e si vede un uomo di spalle, un po’ ricurvo. PP sul suo volto: lo sguardo è un misto tra il dolente e il rassegnato.
“Chi cazzo me lo fa fare? Qua chiudo tutto”

25 settembre 2015

“Siamo riusciti a buttare giù tutte le chitarre guida, ad eccezione di questo pezzo. Come l’hai accompagnato suona bene, ma sarebbe un arrangiamento troppo scontato… E mi sto scervellando da giorni per capire che carattere dargli per non cadere nel banale. La cosa bella di questi momenti d’impasse è che poi l’intuizione arriva tutta in un botto”
“Speriamo”

1 giugno 2015

“Ohi, ti ho chiamato e scritto prima… Esci stasera?”
“Nel credo di essere nel mood adatto, Chiara…”
“Ehi, che c’è? Qualcosa che non va?”
“L’album non si fa… Sono… Non riesco mai a costruire niente. Distruggo sempre tutto. Non faccio altro che allontanare le persone. Non ho più una casa! Non so che lavoro fare e adesso pure questo album non si fa. Non so cosa voglio, o meglio lo so ma mi cago addosso. Ci ho provato un sacco di volte a ripartire, ma ogni volta succede sempre qualcosa e non ce la faccio più Chiara, credimi. Ogni volta si aggiunge sempre qualcosa, e sono stanca. Non ho più forze, questa cosa della casa mi ha letteralmente prosciugata”
“Dai, vengo subito. Dove sei? Passo”
“No, ti prego. Mi conosco, non sarei in grado di parlare”
“Sicura?”
“Sicura”
“Ok… Allora stiamo un po’ al telefono… Prima cosa: cosa mi dici sempre tu? Una cosa alla volta. Nel bene e nel male le cose si risolvono sempre.

La ragazza fissa il cielo. La voce di Chiara è ferma e decisa. Se avesse avuto un bisturi in mano, in quel momento avrebbe eseguito un’incisione perfetta

So che non posso fare e dire nulla per risolvere i tuoi problemi. Ma posso raccontarti una storia. Oggi sono passata in libreria e ho letto un libro per bambini. Si chiama “Domani inventerò” ed è la storia di un orso blu che deve fare un sacco di cose ma le rimanda sempre a domani, perché… Perché ha paura, non ha tempo, insomma si dà un sacco di giustificazioni. E alla fine dice

“Al confine di ogni confine c’è l’ignoto. Se salto, dove andrò? E se c’è qualcosa di brutto? O di sbagliato? E se c’è qualcosa di nuovo?”

Volti pagina e

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l’orso diventa giallo. Finalmente non rimanda a domani, salta.
Credo che la cosa migliore sia decidersi a saltare. Vivere comunque. Sì, è un periodo di merda. Ma per quanto lungo è circoscritto, Eli. E succederà ancora? Sì. Ma sarai cambiata tu, e lo affronterai in maniera differente. So che saprai sistemare le cose.”

Sistemerò le cose.

Ricordo esattamente cos’ho fatto dopo. Mi sono alzata in piedi, sono scesa e mi sono messa a letto.
“Domani inventerò è la metafora della vita artistica. Ogni giorno si deve inventare per vivere. Ci si sente bene solo quando si crea. Cosa potrei fare se fossi felice? Se non posso esserlo, almeno lo immagino”.

Ho preso il mio blocco appunti e ho scritto i primi versi

Non mi sdraierò mai più sul letto / Non piangerò al pensiero che mi sto perdendo tutto
Domani inventerò / Avrò una casa al mare / Avrò da lavorare / E scriverò canzoni allegre / Domani inventerò… Sistemerò le cose
Giovanni Ribisi, non ti voglio mortificare, vergognati (cit.).

1 ottobre 2015

Domani inventerò” ha trovato la sua chitarra guida, merito anche di Cat Power. E’ un testo importante. E’ dedicata a tutte le persone che hanno un’idea di giustizia impossibile nel mondo in cui vivono e si rifugiano nell’immaginazione. Alle persone oneste e baciate dalla sfiga che ogni giorno cercano di vivere con i frutti della loro inventiva. A chi è si è smarrito. A chi si sente (o si è sentito) solo, inadatto, impotente.

Domani inventerò” è un bellissimo libro di Agnese de Lestrade illustrato da Valeria Docampo. Leggetelo: la seconda cosa che farete è procurarvi subito dopo “La grande fabbrica delle parole”.

C’è un paese dove le persone parlano poco. In questo strano paese, per poter pronunciare le parole bisogna comprarle e inghiottirle. Le parole più importanti, però, costano molto e non tutti possono permettersele. Il piccolo Philéas è innamorato della dolce Cybelle e vorrebbe dirle “Ti amo”, ma non ha abbastanza soldi nel salvadanaio. The story of my life, insomma.

Ogni volta che mi sveglio e penso a come guadagnarmi da vivere, ogni volta che una cosa non va, ogni volta che mi sento derisa o incompresa  ogni volta che un acuto non parte o perdo il tempo, ogni volta che non posso esserci, ogni volta che una frase mi esce sbagliata, o per troppo amore non riesco a pronunciarla, penso che il mio emisfero destro mi aiuterà. Me lo ripeto in testa: sistemerò le cose.