“Con gli occhi degli altri. Il Social e l’Antisocial”

Faccio questo post per unire l’utile al dilettevole. Così aggiorno un po’ il sito e vi racconto un po’ come sto e come stanno andando le cose dopo l’uscita di “Antifragile“.

Comincerò così: prima di occuparmi completamente di musica, mi occupavo di social media marketing. Mi ero specializzata nel crisis management, ovvero come gestire delle crisi aziendali dovute ad errori di comunicazione o scivoloni di vario tipo (vi ricordate del caso Barilla quando il proprietario si disse contrario alle famiglie NON tradizionali (sic)? La pagina Facebook venne subissata di insulti e il marchio ne risentì).

La prima cosa che cercavo di insegnare durante i seminari era di rispondere chiaramente, con ironia, dicendo la verità, e nel momento in cui si rischiava di mentire dando un’informazione distorta era necessario rimanere in silenzio.

Così ho fatto in questi giorni.

Se avessi scritto prima, sarebbero uscite righe tristi, arrabbiate, piene di risentimento. Perché effettivamente è così che mi sentivo.
Oggi vorrei parlarvi un po’, come un’amica che vi parla davanti a una birra, dopo una passeggiata al mare in un giorno di sole.

Antifragile è uscito il 20 gennaio 2017, e per come è nato e cresciuto vederlo in carne e ossa è stata una delle cose di cui andrò più fiera in vita.
Ho cominciato completamente da zero: trasferendomi dai miei nonni con zero euro in tasca, mettendomi solamente a suonare, mettendomi in gioco come insegnante, chiedendo a Stefano [Pivato, Noshoes Recording Studio, ndr] di produrmi anche se non avevo capitali, organizzando un crowdfunding perché le mie canzoni prendessero forma.
In mezzo ci sono state molte cose molto provanti. Ma soprattutto, ho dovuto fare affidamento sulle mie sole forze per un carico di lavoro veramente eccessivo, e tutto ciò è stato alla lunga molto (molto) stressante.

Ho cercato molte volte di delegare il lavoro di promozione, comunicazione, booking e management a qualcuno al posto mio, ma ho ricevuto molte NON RISPOSTE.
Non è mai stato un problema darmi da fare in prima persona, ma nel momento in cui lavori senza nessun tipo di filtro o spalla al tuo livello le NON RISPOSTE, o I RITARDI, GLI INTOPPI, LE PROBLEMATICHE ACCAVALLATE cominciano ad avere una seria ripercussione sul tuo umore.
E in un qualche modo, ti abitui a non chiedere più una mano per il timore di un rifiuto, o di quella NON RISPOSTA che ti frustra ancora di più.
Come nel giornalismo, bad news is a good news.

Soprattutto se vorresti fare tutt’altro, cioè suonare.

Mi sono permessa di lavorare non stop dalle 9 di mattina alle 3 di notte, sono arrivata a rispondere al telefono e alle chat di Whatsapp anche durante il pranzo, a controllare Facebook e Instagram compulsivamente anche di notte. A esserci, sempre e continuamente, per tutti.

Tutto questo ha minato il mio mood quotidiano, costantemente aggressivo, e il mio ascolto verso gli altri. Ho cominciato ad avere dei problemi di concentrazione e di comprensione del testo e dei racconti dei miei parenti. Non riuscivo ad ascoltare nessun brano musicale dall’inizio alla fine. M’annoiava (Fiorella) tutto.
E’ come se la mia testa fosse costantemente satura di uno spazio che in realtà non era occupato.
Gli amici erano molto contenti di Antifragile, e cercavano in tutti i modi di farmelo capire… Ma io non ero partecipe veramente della loro gioia.
Avrei voluto smettere e scappare via lontano.
Appena succedeva qualcosa di buono, aspettavo la contropartita.

Qualche settimana fa è accaduto un evento che mi ha scossa profondamente, e come da ogni evento traumatico che si rispetti, ho fatto esperienza e imparato qualcosa.
A parte due mesi di stop forzato, non mi sono mai fermata un attimo, e l’ho fatto apposta.
Per non affrontare il senso di vuoto, una mancanza, l’oblio.

CAMPANELLO #1
Mi è venuta in mente una frase di un’insegnante delle scuole medie, che i ragazzini di oggi con una tecnologia che permette loro di trovare tutto e subito non sono abituati all’attesa, al desiderio.
Alla mancanza di qualcosa.

E la mancanza può essere utile, perché lì sviluppi il senso di ricerca, il senso di risoluzione del problema.

CAMPANELLO #2
In un’intervista fatta a Giuseppe Lopizzo (un bravissimo vocal-coach) per Radiobue si parlava di come anche i cantanti professionisti sempre più continuano a essere seguiti anche dopo gli inizi.
Perché non è detto che quando si impara a cantare poi è sempre tutto uguale.
Ci sono nuovi impegni, abitudini scorrette da modificare, un nuovo repertorio che presenta nuove difficoltà.

Un po’ come la vita.
Quello che prima poteva essere un equilibrio, per questioni vitali continua a modificarsi, e noi con esso. Nel momento in cui si continua a cadere e a rialzarsi senza camminare con continuità, forse è meglio stare un po’ in panchina.

CAMPANELLO #3
“Se pensiamo costantemente al nostro passato, non faremo altro che alimentarlo, non vivendo il presente. Come per i pensieri negativi, più ci pensiamo, più gli diamo energia”

CAMPANELLO #4
Sono diventata ciò che non sopporto.
Invidiosa e scostante.

Ho disinstallato tutti i social dal telefono. Ho cominciato ad uscire e a capire perché stessi così male, perché non provassi più alcun entusiasmo nel suonare.
Proprio adesso. Proprio ora, sì. Nel momento di massima esposizione.
E più uscivo e parlavo, più la vera spiegazione arrivava da… VOI.

“io ho smesso di fare date da circa un anno. Non lo sopporto più. Non sopporto più di dover portare la gente, contattare quello e quell’altro, chiedere il favore di là e di qua, guardare la sfilza infinita di “visualizzato” che si susseguono nella mia chat. Non ho mai odiato il mio lavoro così tanto”

“non mollare, (omissis), all’inizio credi che sia questione di vincere con una carica di cavalleria, ma la verità è che è battaglia di trincea, vince chi si usura meno”

“ma tu non sai quante volte mi sia successo con la fotografia. Ho venduto tutti gli obbiettivi e sono andato a lavorare come falegname per due anni! E’ normale che ti sia venuta la depressione post-partum. Non si può suonare a comando, altrimenti diventa un’abitudine”

Paradossalmente, in questo periodo mi hanno aiutato i miei allievi. E i miei amici musicisti.
I miei amici musicisti, quelli veri, perché nei momenti di fragilità ti raccontano le loro retrovie. E capisci che quelli bravi davvero si danno una mano, e non i calci in culo. 
I miei allievi è come se avessero assorbito la passione che ho dato loro nei miei momenti d’amore e nel momento in cui non ero poi più così convinta sono stati lo specchio di quello che gli avevo trasmesso. E’ stato bello vedere Alisia liberare la sua voce, è bello vedere Vittoria segnarsi per bene le pronunzie dell’Hallelujah di Cohen, o Bea, che sta imparando i suoi primi riff.
E’ stato bello sentir cantare Chiara Vidonis, essere abbracciata forte da Irene Ghiotto, aver giocato a calcetto con Ilenia Volpe, rivedere Pier, Chris, Spa, Andrè e Lucia, emozionarmi con Chiara Patronella e Salvatore Alessi.
E questo accadeva FUORI.
Per una questione di cecità virtuale e mentale, rischiavo di perdermi tutto questo.

Ora posso dirmi pronta.
Riprendo a suonare e a usare i social, perché hanno dei difetti orribili, ma anche dei pregi straordinari. Ed è anche grazie e soprattutto a loro che riesco a fare ciò che faccio. Mi hanno fatto conoscere amici straordinari e un affetto di cui ero all’oscuro.
Il sistema del musicale italiano non cambierà, ma da oggi cambio un po’ io. Non so in che modo, ma cambierò.

Continuerò a prendermela a cuore? Probabilmente sì.
Ma ovviamente prendendomi sempre in giro.

La musica per me è un fatto carnale. Continuerò a volerle bene, a pretenderla, ad odiarla, a litigarci.
Perché non è un prodotto, non è un’abitudine, è un fatto terribilmente umano.
Come lo sono io.

Sorrisi a tutti. Grazie a tutti per il vostro immenso entusiasmo e supporto, vi voglio bene.
Se una ha gli amici che si merita, non son poi tanto male :-)
Eli

12×01 “Fuori dallo scatolone”, Antifragile

Settembre 2016 – NoShoes Recording Studio (Dolo, Venezia)

“Posso farti una domanda stupida? Cos’è il mixaggio?”

“Il mixaggio è il momento che preferisco. Mi chiudo in studio, mi incazzo per dei giorni da solo finché non trovo il suono giusto che ho in testa di tutti gli strumenti. Sono capace di fermarmi anche un intero giorno sul suono di un rullante. E’ il mio banco di prova: devo giustificare tutto quello che ho pensato all’inizio del disco.”

“Che cosa intendi?”

“Che quando ascolto una canzone io vedo tutto. Capisco come deve suonare, la pasta. Ho la visione d’insieme. E non mi accontento finché non esce ESATTAMENTE come l’avevo pensata.”

Ottobre 2016 – NoShoes Recording Studio (Dolo, Venezia)

“Le grafiche del booklet saranno come un grande scatolone, dove metterò gli oggetti che ho tenuto durante i quattro traslochi. Ti ricordi quando mi parlavi della visione d’insieme? Io ce l’ho per tutto il resto. Ho l’idea del logo, cosa mettere nelle maglie, delle grafiche, come uscire nelle foto, lo storyboard del videoclip. Forse passo per una megalomane, ma ho in testa una storia. E per essere raccontata alcuni particolari non possono essere cambiati. La comunicazione è importante. Non prendo per il culo me stessa, tantomeno gli altri. Deve uscire la storia che ho in testa. Devo dire la verità.”

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La copertina del booklet. Artwork: Matteo Simonetti

11 Ottobre 2016 – Flixbus, tratta Milano/Lampugnano – Mestre/Venezia

“Tieni conto che ormai il successo dei dischi lo fanno gli uffici stampa.”

Sto tornando da Milano e questa frase mi sembra vera e agghiacciante al tempo stesso come “Eh ma non sei milanese”, “Eh ma non sei abbastanza indie”, “Eh ma non sei abbastanza mainstream”.

E penso.
Come se essere veneta fosse una colpa.
Come se essere indie fosse una colpa.
Come se non essere indie fosse una colpa.
Io sono io, se mi metto a pensare che musica fare per piacere agli altri è finita.
Non sono cane, né un lupo. So soltanto ciò che non sono.
Praticamente sono Balto.

Faccio parte ancora della vecchia scuola che pensa che un album o è bello o è brutto, indie o mainstream che sia, veneto o milanese che sia.
Non sono mai stata razzista nella vita, figurati se lo sono con la Musica.

A quanto pare non è così, ed è stato utile sentirlo. Per essere preparata a qualsiasi evenienza, che non significa disilludersi o amareggiarsi, ma rendersene conto.
Si sa che più che cercarsele le cose bisogna essercele. Farsi trovare nel posto giusto al momento giusto.
E’ il principio dell’anello, descritto dal buon Saturnino ad un vecchio incontro al Vintage Festival.

Non mirare al pesce grosso, ma ai pesciolini intorno. Un anello dopo l’altro ti porteranno a lui.

Mi trovo all’Autogrill di Desenzano del Garda e ho una nuvola gigantesca in testa: penso alla fatica fatta per finire questo disco, alla paura che tutto venga vanificato per fattori che non posso controllare direttamente.

“Tu non consideri una variante: LA VARIANTE C. Il Culo Eli, o il Caso. Vedi tu. Non sai come verrà accolto il tuo disco dal pubblico. Può essere che tu abbia tutta la pubblicità del mondo e non vada, come pure il contrario. Ci sono delle cose che non dipendono da te, che non puoi prevedere.”

Ha ragione Alice, instancabile risolvi-problemi. Ho fatto tutto il possibile per Antifragile, eppure vorrei fare di più. E’ possibile che non si riesca a capire cosa fare dopo aver fatto un album? Come ci si rivolge a un’etichetta? Come scegliere un booking o un ufficio stampa?

“Se non sai una cosa, chiedila con cortesia. Una domanda non è mai stupida. La risposta, semmai, sì.”

La risposta ha la voce dolcissima di Chiara Vidonis. Una cantautrice che stimo profondamente, e che al telefono ha la stessa voce della mia amica Gioia, quindi per transfert le voglio già bene. Con il mio stesso percorso, e che forse non mi darà la soluzione, ma non cerco soluzioni. Ho bisogno di esperienze e di persone fidate.

E Chiara scrive bene. E chi scrive bene pensa bene.

“Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!”
“Ringraziare è logico/ Essere grati è una questione di buonsenso e rispetto”

“Sì, indubbiamente non risparmiarti nell’ufficio stampa. Fai una piccola ricerca in base ai cantanti a cui ti ispiri e vedi a chi si sono rivolti. Sembra che non succeda nulla all’inizio, ma in realtà se il disco è buono qualcosa si muove. Cerca di investire nella tua immagine, e cerca di suonare il più possibile fuori dalla tua regione. Creati una tua piccola cartella stampa: foto, biografia, disco in streaming. E le aperture dei concerti per artisti BIG! Quelle sono super-importanti. Metti tutto ciò che potrebbe essere giornalisticamente rilevante.”
“Grazie Chiara… Io non so veramente come ringraziarti.”
“Ma figurati! Se non ci si aiuta tra di noi. Rimaniamo in contatto! E spediscimi il tuo disco.”

Appena chiudo la chiamata mi sento un po’ più… consapevole. Credo sia la parola più adatta.

Chiara mi ha appena dato una pacca sulla spalla, e ha avvalorato una tesi che sostengo da un po’, forse non dai risultati immediati, ma per me più etica ed efficace.

Dunque.
Parliamo sempre di risposte, di cambiare le cose, della paura del fallimento.

Credo nel mio piccolo di avere avuto delle vittorie.
La prima è che ho smesso di cercare le risposte negli altri: è molto facile dare la colpa ad agenti esterni di ciò che ci succede, o peggio, aspettare che qualcuno risolva le cose al posto nostro.
Il dolore non si può evitare, ma gestirlo da soli (e in caso condividerlo, non buttandolo addosso a terzi) ci fa capire meglio noi stessi, e di conseguenza gli altri.

La seconda è che bisogna investire nelle persone. Ascoltarle. Il male del nostro tempo è che ci si parla addosso e non si ascolta chi ha qualcosa da dire. Nell’ascolto si capisce chi ti è veramente amico, e chi no. Aiuta a fare una scelta. Investire significa anche scegliere.
Le relazioni diventano contatti, che diventano risorse. Essere d’aiuto, perché poi in un qualche modo quell’aiuto ti ritornerà. A me succede in continuazione.
Capire le persone è come aggiustare una macchina. Non tutti sono in grado di farlo. E non tutte la macchine vogliono essere aggiustate, o non tutte le macchine possono essere aggiustate da te.

“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre” (Carlo Mazzacurati)

La terza e di cui vado più felice è che attraverso la mia lotta e le mie parole tanti amici hanno trovato il coraggio di fare qualcosa. Sono partiti dei progetti su Musicraiser, alcune persone che mi seguono su Facebook hanno intrapreso un viaggio da soli, c’è chi mi scrive perché attraverso le mie canzoni ho alleviato un po’ del suo dolore, o li ho fatti sorridere.

“Tutto è provvisorio in questo universo. Non è che sia importante l’esistenza di una canzone… cosa vuoi che sia. E’ importante nel momento in cui influenza qualcuno a diventare un essere più degno” (Franco Battiato)

**********

Non c’è nulla di eroico nella mia vita. Anzi, il più delle volte è dolorosa e palesemente sfigata.
Non mi fido delle persone a cui va sempre tutto bene. Anche di quelle a cui va tutto male. Simpatizzo con chi cerca di affrontare le situazioni, cerca di capire e imparare.

Sono un’umana cantautrice che si divide tra un insegnamento precario, una famiglia caciarona, un disturbo d’ansia generalizzato, conti del dottore e multe da pagare. Un’umana cantautrice che si entusiasma per una nuova chitarra, una bella canzone, per un allievo che riesce a fare il suo primo barrè o fa progressi nel canto, che studia e ama con passione.

Piango tanto e rido di più.

Antifragile, il NoShoesRecording Studio, i miei insegnanti, i miei allievi, il crowdfunding mi hanno insegnato che a tutto c’è una soluzione. Prima o poi. E che bisogna vivere, bisogna essere sinceri, bisogna accettare la propria umanità.

Thinking outside the box”: bisogna uscire fuori dalla propria scatola.
Nel mio caso, dallo scatolone.

11×01 “Come va con l’album?”, Antifragile

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16 settembre 2016
Dai, che la prossima estate parte il mio tour“, replico scherzosamente.
Il tuo tour. Mettitela via che per i primi 3 anni un fonico tuo non te lo potrai permettere. Passi il live-set da sola, ma con la band sarà dura. Dovrai occuparti di pagar loro la serata, essendo turnisti. E se giri per l’Italia? Un noleggio furgone. Il booking? Se è bravo riesce a trovarti almeno 20 date, e vorrà giustamente una percentuale. Videoclip di nuovi singoli. Concorsi. Ufficio stampa.
Mettiti in testa che per questi primi anni, se le cose andranno bene, non guadagnerai. Suonando non ci si arricchisce. Ma questo è il mestiere che abbiamo deciso di fare“.

Rasoiata artica. Giusta rasoiata artica.
In studio abbiamo appena registrato le voci definitive di “Ciclista e Palombaro“, forse mi hanno assunta in una scuola di musica.
Dovrei festeggiare e mi viene il terrore. Guido verso casa e per la prima volta in un anno penso di aver fatto una cazzata.

E’ la fatica di un anno in studio. Del km 30 mentre stai correndo in una maratona, come dice Federico.
E’ la stanchezza e il dolore di una malattia sottile e bastarda che mi infastidisce da Aprile e colpisce nei momenti più insoliti.
E’ la randomness di una nuova folle incognita che incombe su me, Stefano e il NoShoesRecording Studio. Un computer rotto, la corrente che salta, le spese improvvise, le sorprese sgradite.
E’ il mio mescolare tutto insieme in un bolo emozionale unico.

Ma scusa, com’è che Levante ha fatto un album in tre settimane e tu ci metti un anno?

Incasso la battuta. Ma francamente un po’ mi rode il culo.
Eppure, mentre guido verso casa, so che Stefano ha ragione.
Che con i dischi non si guadagna abbastanza per fare un album con un budget più alto, che bisogna inventarsi sempre una nuova alternativa per arrivare a fine mese.
Che tutto quello che ho ottenuto con Musicraiser se ne andrà in ufficio stampa, merchandising, bollini SIAE, stampa CD, grafiche, video e foto varie, venderò solo i dischi ai concerti, suonerò e poi partirà tutto daccapo. Lo so.
Che tutto quello che sto facendo non è abbastanza, ma almeno ci sto provando.
Che non potrò rilassarmi dopo le registrazioni perché partiranno i live.
Che sono sola a fare un lavoro di una squadra.
S O L A.
Ma voglio essere ottimista.

“Come va con l’album?”

La domanda più gettonata dell’ultimo periodo.
Spero vada bene. Le ho sviscerate così tanto queste canzoni che ormai ho perso la giusta distanza. Va che dei giorni mi par di non sapere più cantare, sono sotto a una lente d’ingrandimento gigantesca che esalta tutti i miei difetti e mi ripeto ridendo “Ma faccio così cagare?” e dei giorni non riesco nemmeno a rendermi conto di quanto sto crescendo ascoltandomi e riascoltandomi.
Provo a fare cose che non ho mai fatto in dieci anni di lezioni di canto. Francamente? Ci sto provando. Non so se sia giusto o sbagliato. Lo dirà il tempo.
Lo studio è una palestra, sto buttando il meglio che ho.

Di fianco a me, spalla contro spalla, ho un produttore antifragile. Siamo stanchi entrambi, ma ogni volta che torno in studio mi ricordo perché ho scelto di lavorare con lui: perché ha passione, perché non molla, perché è un onesto, nei giorni in cui un take non va, in cui manca qualcosa o bisogna cambiarla completamente e allora partono i silenzi o le bestemmie a scena aperta, nei giorni in cui basta aggiungere un’allegra fischiettata per svoltare un brano o quando senti che fuori cantano la tua canzone.
Se uno allenta la corda, l’altro la tira. E si rimane in equilibrio.

Spesso mi dimentico che la musica è qualcosa di magmatico, lunatico. Il NoShoes è il posto dove ho riso e ho pianto di più. Dove ho amato follemente quello che stavo facendo o ne avevo persino la nausea.

“Questo è tipo il km 30 alla maratona. Ovvero il vero muro. Se passi il km 30, poi chiudi i 42. Tutti si piantano attorno al 30. Ora tu sei allenata, e sai bene che la fatica è molta. Magari rallentando un attimo, non mollando, la maratona la porti a casa”

La solitudine colpisce le persone che meno la meritano nei momenti in cui meno la meritano. Ma quando la vivi capisci una cosa: che non sei la sola a provarla in quell’istante.
Non vi dirò che è una vita facile, ma è la vita che mi rende libera.
E’ rischiosa la vita di chi non si accontenta e non ci si racconta palle? Hai voglia.
E’ sempre meglio dell’anno prima, in cui ero in un ufficio, in una casa, in una città in cui credevo di stare bene? Sì.
E’ stata un’estate pazzesca, in cui ho suonato-visto cose-conosciuto gente più che ho potuto? Diamine, sì!
Siamo in ritardo con l’uscita? Oh, sì. Ma uscirà come vogliamo.
E allora.
Le cose belle hanno bisogno di tempo.

Epilogo.
Il prossimo album vorrei farlo dark. I bassi alla Joy Division, la batteria elettronica, flanger, chorus, delay. Ho già in mente le atmosfere“.
“Allora bisogna ascoltare i She Wants Revenge. Sonorità dark-wave ma in chiave moderna, evitando di fare alcune merdate indie che si vedono in giro oggi”.
“Oh, bisogna finire questo e già parlo del prossimo. Ho dei problemi seri”.

Sì, è la verità. Sono malata in testa, non sono normale.
Voglio finire questo disco. Ho vive speranze che possa piacere. Penso al prossimo album.
Una che ha l’evidenza davanti agli occhi eppure vuole continuare a suonare in Italia non è normale.
Eppure.
Pazza e recidiva.

“Ma la cazzata l’ho fatta l’anno scorso quando ho iniziato Antifragile o prima?”.
Mi rispondo da me.

[Ph: Matteo Sandi]

8×01 “Amore, medicine e chitarrette”, Antifragile

Interrogazione di storia.
“Bene Bonomo, su cosa si è preparata?”
“Beh veramente prof, sugli Assiro-Babilonesi”.
“Molto bene. Mi parli dello slancio vitale di Bergson”.
“Ma come prof…”.
“Beh scusi, fa sempre parte del programma scolastico”.

Ho riassunto in poche parole cosa significa registrare le chitarre in studio con Stefano. Sono sempre stata una precisina, una di quelle che deve studiare la parte cento volte per evitare figuracce, ma soprattutto per non far perdere tempo a chi ho affianco. Invece, dopo aver fatto la brutta copia di come avrebbero dovuto suonare sopra batteria e basso, mi ritrovo a fare tutto daccapo. Al momento.

In quei momenti schizzavo malissimo. All’inizio.
“Non ne sono in grado”.
Adesso è quasi sfidante. Anzi, è sfidante.

I più sanno che il mese di aprile l’ho passato completamente a letto, con la faccia sformata, febbre alta, incapace di camminare. Poi i medicinali sbagliati hanno fatto il resto, bloccandomi le mani, togliendomi il sonno, disturbando pesantemente il mio umore.
Finita la malattia, è arrivato un sovraffaticamento muscolare alla mano sinistra.
Mano quasi ferma per due mesi. Per una che deve registrare le chitarre definitive del suo album praticamente una pacchia insomma.

Ma non mi sono persa d’animo. Ne ho approfittato per fare una cosa.

Da quando ho 15 anni, con tantissimi stop-and-go, studio chitarra elettrica.
Devo essere sincera, non ho mai avuto questa grande mano rock, ma non è stata tutta colpa mia.
Sin dall’inizio le Accademie o le Scuole partono con UNA COSA CHE A ME NON E’ MAI ANDATA GIU’: GLI ASSOLI DI CHITARRA.

Per me l’assolo di chitarra è un atto di egoismo. Lo faccio se necessario, altrimenti fottesega.
Vuoi mettere la chitarra ritmica?

Qualsiasi tipo di insegnante medio (salvo rare ed intelligenti eccezioni) parte dicendoti di ascoltare nell’ordine:
Steve Vai
Joe Satriani
Paul Gilbert
Yngwie Malmsteen
e tanti tanti altri.
Insomma, dei virtuosi.

Poi vai in sala prove con gli amici e non riesci a fare la chitarra ritmica di “Smells like teen spirit“, non hai gusto nella scelta del suono e dei vari stili. Ma shreddi da Dio e fai le pirole a 180bpm.
Poi vai a fare il turnista in studio di registrazione e ti dicono “Vorrei un assolo meno eroico. Fammi una chitarra marcia”. (cit. Alberto Milani). E tu vai in crisi.
Va tutto benissimo.

Beh, dicevamo. L’inferma Erin se ne sta a letto e ne approfitta finalmente per cercare il tipo di suono che le piacerebbe avere. E che cosa fa? Cerca i chitarristi che fanno quel tipo di musica che le piace. E fatalità sono chitarristi che le Accademie non cagano nemmeno di striscio.
Ascolta Jeff Buckley, i Pixies, i Killing Joke, i Sonic Youth, i Joy Division, i Radiohead, gli Stooges, i Cure, i primi U2. Ascolta con grandissima attenzione finalmente i Led Zeppelin e gli Ac/Dc.
Ascolta le ritmiche, prova a riprodurre gli assoli con la voce, ma giusto per sfizio.
Ascolta perché non riesce a suonare, ma le sue mani hanno già nuove idee. E ha dei suoni in testa.

“Questa malattia ti ha fatto veramente bene! Il suono è migliorato tantissimo!”
(Khaled Abbas – il mio insegnante di chitarra MMI, giovedì 26 maggio… Due settimane che non toccavo i manuali)

“L’impressione che ho, sentendoti, è che tu vuoi fare bene il tuo compitino. E’ tutto preciso e a tempo, ma è scolastico. Non mi interessa. Voglio un suono anche sporco, ma di cuore. Voglio sentire le ghost note, il carattere!”

“Suoni staccata. Accompagna il suono fino all’ultimo”
(Stefano, 23 aprile 2016 – registrazioni di “Anima Nera”)

“Pensa a Keith Richards. Questo riff se lo fai tutto a pennate in giù lo ammazzi. Ascoltalo bene. Magari non sarà tecnicamente giusto, ma senti che corpo”
(Stefano, 24 maggio 2016 – registrazioni di “Fango”)

Ogni commento mi faceva diventare sempre più piccola alimentando la voce che sì, ero una chitarrista scarsa.
Ma il mio problema non era la tecnica.
Mancava il collegamento cervello-cuore-mano.
Mancava il “proviamoci, comunque vada”.

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[Una rara foto che ritrae Stefano Pivato non di spalle. Ph: Andrea Bonomo]

Un mese in studio con un istintivo mi hanno dato molto di più di 15 anni di chitarra. Mi hanno insegnato il controllo ma anche l’istintività, la ricerca, l’accettazione di quella voglia di buttare via tutto per rifarlo di sana pianta, la voglia di suonare e di divertirmi. Di lasciarmi andare, finalmente. Chiudo gli occhi e mi diverto.
Dopottutto per me suonare è un’esigenza. La mia frustrazione nasceva dal non fare uscire tutta me stessa.
Per quanto ti dicano le cose, le capisci solo quando ti passa un tram sopra.
Siamo sulla buona strada.

La mano ogni tanto fa male. Khaled mi dice di non darci troppo peso, a volte sono cose psicosomatiche.

E negli ultimi due live, magicamente riesco a fare delle piccole improvvisazioni che non fanno troppo cagare.

“Suoni molto bene la chitarra, complimenti! Che tecnica!”
(Astanti al live al Comarò, astanti al live al Lighthouse Pub probabilmente alticci)

Sia ben chiaro, io sono FELICE di frequentare un’Accademia e dei continui input che riesce a darmi. Khaled Abbas è un insegnante eccezionale. Un altro chitarrista che mi piace un mondo e vi consiglio di frequentare almeno una volta una sua clinic è Alberto Milani.
Ma lo dico per me e per gli altri chitarristi: nessun paraocchi. Formatevi anche esternamente. Siate curiosi per conto vostro, cercate il suono, il cuore, oltre alla tecnica. Ascoltate di tutto e rubate dai vostri chitarristi a piene mani.
Cazzeggiate. Cercate di capire gli accordi usati nel funk, i lick blues, il tempo nel punk, lo sporco del grunge, l’effettistica della new wave o del dark.
Ascoltate gli altri strumenti! I giri di basso dei New Order, le batterie dei Nine Inch Nails, il pianoforte di Tori Amos. Altrimenti sarete come quei musicisti che non sanno suonare senza uno spartito davanti.

Ma che cazzo di bello è successo in questo mese?

Sostieni il mio disco su Musicraiser: perchè e come funziona

Martedì 10 maggio è partita ufficialmente la raccolta fondi per il mio album d’esordio solista, “Antifragile”. Sarà attiva fino al 9 luglio e l’obiettivo di raccolta è 3.500 euro.

Ad ogni quota che deciderete di destinarmi, ci sarà una ricompensa ad hoc studiata per voi, che racconta un po’ della mia storia:
https://www.musicraiser.com/it/projects/5547-antifragile-il-mio-primo-album-solista

Le quote che prenotate saranno effettivamente prelevate dal vostro conto al momento del raggiungimento (o superamento) del traguardo, ma per coloro che non avessero un conto corrente o Paypal è anche possibile fare una raccolta a mano durante i miei concerti (o altro appuntamento) e mi impegnerò a versarli io.

Ho scelto il sito Musicraiser.it perché sono stata io stessa raiser (partecipante) di altri progetti e perché sempre più si dimostra una piattaforma seria ed efficace, capace di dare forma a quello che un tempo poteva essere una semplice utopia, ovvero DARE FIDUCIA A UN MUSICISTA PRIMA CHE LA SUA OPERA SIA COMPIUTA.

Da Musicraiser mi chiedono di raccontarvi una storia, del perché abbia iniziato il crowdfunding ed è molto semplice: non riesco a farcela da sola.

Come ho sempre fatto, vi dirò la verità. Non ho una casa discografica alle spalle disposta a investire su di me, non ho intenzione di partecipare a un talent (ansiosa come sono, morirei alla seconda puntata), non sono ricca di famiglia (ahimè) e realizzare un disco per un’esordiente costa veramente tanto.
Non ho dati da squadernare, non ho views da capogiro su youtube, non ho tette da urlo (o forse sì), non ho nulla se non i miei live in cui convinco le persone, una ad una, ad affezionarsi a me e alle mie storie.

Nel mare magnum delle persone assurde che ho incontrato in questi anni, da promoter a sedicenti manager, giornalisti e compagnia cantante, ho avuto la fortuna di conoscere una persona che mi ha dato fiducia, interpretato i miei pensieri e investito su di me: Stefano Pivato. Lui è il mio produttore artistico ed esecutivo, si è accollato metà delle spese di realizzazione, e solo per questo meriterebbe una vincita da Superenalotto al giorno.

Ecco, vedete, siamo in 2.

Da oggi, grazie a Musicraiser siamo 2 + 31 nuovi co-produttori.

Riconosco che il materiale da farvi ascoltare/vedere sia poco, o mediocre, non è una scusante ma è difficile gestire tutto. Non mi sto occupando solo dei miei concerti, ma di coordinare la grafica del cd ad esempio, o il videoclip di lancio, o la promozione, di procacciarmi date, di spedizioni, di maglie e shopper, di stringere mani di etnie diverse dalla mia. O di studiare le chitarre da inserire nell’album, altrimenti Pivato mi appende come un giaccone.

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Io quando sono finita nel banner di Musicraiser in home vicina a Bjork e ho chiesto i sali

Lo faccio perché ci credo assurdamente. Ma soprattutto perché è la ragione per cui mi alzo ogni giorno e faccio un lavoro extra la sera. Al di là di chi mi dice che c’è crisi, che con la cultura non si mangia… Ok ok, sì. E’ vero. Ma almeno non ho niente da perdere. Almeno, e FINALMENTE, sto facendo qualcosa che mi piace.
E vi giuro, a 30 anni di amici che lavorano e son contenti di quello che fanno li conto sulle dita di una mano. Monca.

Perciò, se non mi conoscete… Venite ai miei concerti. Ne faccio un bel po’ durante la campagna e così potete ascoltare le mie canzoni in anteprima.
Altrimenti fatevi una bella chiacchierata con me. Sentiamoci al telefono, via messaggio, via skype. Vi suono qualcosa. Giuro.
E poi mi valutate se “vi arrivo”, alla X Factor.

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Grazie a tutti coloro che stanno contribuendo/hanno contribuito/contribuiranno!
Ps. Un capito a parte sarà riservato alle RICOMPENSE! :P

#unacanzone01: Play Dead, Bjork

E’ il 2016. Sto guardando “Scrivimi una canzone” su La5 (e questo vi fa pensare all’alta qualità dei miei venerdì sera) e durante la pubblicità passa un promo con sottofondo “Play Dead“. Mi batte forte il cuore.
Sento l’esigenza fisica di smettere di fare tutto quello che sto facendo, prendere il telefono, cercare il brano, ascoltarlo.
Ogni volta che parte quell’incipit d’archi mi parte un’emozione incontrollabile. La stessa di quasi undici fa, quando ascoltai per la prima volta “Debut” di Bjork. Perché è di lei che stiamo parlando.

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Ecco, non so se a voi è mai successo che un brano continui a emozionarvi dopo uno, cento, mille ascolti. Io ricordo esattamente la prima volta che ho ascoltato “Play Dead”.

E’ il 2005. Me ne sto nel bus che da Borbiago, ridente cittadina della provincia veneta, mi porta a scuola a Venezia, all’ITT Algarotti. Sono le 7.20 del mattino e come di consueto accendo il mio Thompson, lettore CD da combattimento che ha un sacco di pregi, ma non il volume d’ascolto. Devo sempre tendere l’orecchio per ascoltare le canzoni, per superare il brusìo dei miei compagni e del gasolio del torpedone. Ma così facendo, devo per forza concentrarmi sui brani, sulla loro struttura, sulla melodia. I testi. Se non riesco a capire le parole vado fuori di melone.

Infilo “Debut” nel Thompson. Come tutti i cd originali, non è mio. L’ho preso in prestito in biblioteca, che sta contribuendo non poco alla mia educazione musicale. E poi Bjork è il mito di Elisa, e io adoro Elisa, quindi ogni sua parola è legge. Deve piacermi per forza Bjork e il suo “Debut”.

Inizio ad ascoltare con il sorriso sulle labbra, che via via scema. Non è esattamente quello che pensavo. E’ un disco allegro, pop, techno, d’avanguardia.
DENS.
Io sono esattamente l’opposto.
Ok, “Human behavior” mi piace, ma il resto scivola via un po’ come una saponetta.
Per non parlare di quella barba con l’arpa (?) e i suoni del mare di “Like someone in love“. Puah.

Se ritornassi indietro, mi direi stupida forte per aver snobbato dei pezzi come “Venus as a boy“, che poi scoprirei far parte della colonna sonora di Leòn (film che amerò), o “Big time sensuality” (con quel videoclip di Cristo diretto da Sednaui, dove lei è a New York, sul retro di un camion e balla) o “Violently happy” (un altro videoclip che manda letteralmente ai pazzi, questo diretto da Mondino).
Ma che volete farci… In quel periodo avevo dei gusti simili ad un abate del 1200 e tutto ciò che non si avvicinava al pop-rock era vera e propria eresia.

Poi succede il Miracolo.
Ultima track. Ultima possibilità.
Mentre sto per gettare la spugna, parte la rivalutazione totale.
Partono gli archi di “Play Dead“. Poi dei vocalizzi, delle urla d’aiuto, di qualcuno tenuto in gabbia che vuole uscire. E io smetto di respirare per qualche minuto. Mi incollo al sedile del bus e non riesco a fare altro che rimanere travolta da

Darling stop confusing me/ with your wishful thinking/ hopeful enbraces don’t you understand?/ I have to go through this/ I belong to here where no-one cares and no-one loves/ no light no air to live in/ a place called hate/ the city of fear/ I play dead it stops the hurting/ I play dead and hurting stops

La canzone continua e io ho paura di rimanerci secca. Batterie elettroniche e arrangiamenti orchestrali, ostinati. Quel ritornello cantato con rabbia e liberazione. E poi la finta dolce calma isterica delle strofe. Una dinamica killer.
La canzone finisce e io capisco che è cambiato qualcosa dentro di me.
Per un’adolescente in rotta con il mondo, incompresa, incazzata, inconsapevole di sè stessa, tutto questo sconvolge e turba assai.
Metto il repeat fino a Venezia. Scendo dal bus, faccio il Ponte degli Scalzi, la Lista di Spagna, passo a lato del Ponte delle Guglie sempre con “Play Dead” in repeat.

La giornata procede, non ricordo come.
Sta di fatto che torno a casa e faccio una cosa inusuale: copio dall’internet tutto il testo e me lo scrivo sul diarietto segreto.

(volete la foto del diarietto? Ce l’ho eh!)

E scopro che “Play Dead” è stata inserita più tardi in “Debut“, fa parte della colonna sonora di un film, “Young Americans“, e che Bjork ha avuto un po’ di difficoltà a cantare lo struggimento visto che viveva un periodo felice.

Se “Play Dead” non fosse stata inserita in “Debut“, se non avessi spinto per l’ultima volta il bottone play su quell’album, io non mi sarei mai innamorata di Bjork, il mio cuore non avrebbe smesso di battere per alcuni interminabili minuti, non mi sarei incollata alla sedia del bus in stato catatonico, io stessa forse sarei stata diversa da come sono ora.

Dunque.
Mille di questi innamoramenti.
Mille di questi “Play Dead“.
Mille di queste #unacanzone.

Il paradosso dell’eterno lottatore, Antifragile

A fianco del mio letto, dove ho passato gran parte di queste tre settimane, ci sono un paio di guantoni rossi da pugilato. Li avevo comprati circa un anno fa, quando mi ero messa in testa di fare di kickboxing.

E la feci. Tre mesi di allenamenti durissimi, con tanto di esamino finale.
Fui l’unica a non passarlo.
Me ne andai non appena fu possibile, cambiandomi in fretta e uscendo lesta dalla palestra.
A casa piansi di vergogna e di umiliazione.

Dicevo. A fianco del mio letto, dove ho passato gran parte di queste tre settimane, ci sono due guantoni rosso fiammanti con la scritta “STING” e un paradenti, tutti e tre nella custodia trasparente.

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“Donna forte, malattia forte”.
Eh già, fosse solo la malattia.
Passi che il tuo sistema immunitario di colpo impazzisce, come il mio.
Ogni giorno un dolore diverso, pernicioso e continuativo.
Cominci a dare una cadenzata ritualità oraria a tutte le medicine che devi sciropparti. Ti dà l’illusione di avere il controllo mentale di un corpo che in realtà dentro sta combattendo una battaglia tutta sua e tu puoi solo avere pazienza, avere rispetto, stare a guardare.
Ma davvero, fosse solo la malattia.

Ho passato questi giorni, ma saranno più o meno due anni o poco più, a chiedermi il senso del dolore, della sofferenza, delle difficoltà.
Cosa e chi stabilisce chi può avere una vita tutto sommato facile e chi no.
Chi si sveglia la mattina sorridendo in un giorno senza nuvole, e chi ogni giorno è impegnato a combattere una guerra diversa.

La stra-citata fine de “Le città invisibili” di Italo Calvino ricorda come sopravvivere all’Inferno: accettare di farne parte, oppure, di volta in volta, riconoscere cosa non è Inferno. Certo che scelgo la busta 2.
Inferno per me è la bugia, l’egoismo, la disonestà, l’avidità, la prepotenza.
Non le accetto, ma non perché son dura e pura, ma perché non sono fatta così. Se fossi così mi sputerei dietro.

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

A me hanno dato la spilletta della lottatrice. Quella che si è sudata ogni singolo risultato. Ma non vi dico queste cose per darmi un tono o cosa, no, son proprio così. Son quella che si preoccupa anche dell’avversario. Quella che se proprio proprio ti deve tirare un pugno, ecco, ti spiega prima tutti i perché, punto per punto.

Ecco, penso che…
Il vero senso del dolore non è che ti rende migliore.
Ti rende migliore perché ti rende estremamente ricettivo.
Ti fa accorgere.

Sono stata a letto tre settimane.
Non potevo cantare, non potevo tenere una chitarra in mano.
Però ho potuto ascoltare le canzoni degli altri, commuovermi guardando film d’altri, ridere leggendo libri d’altri.
Sono stata grata del fatto che questi Autori avessero avuto la possibilità di pubblicare le loro opere per darci un po’ di sollievo.

E sono sempre grata quando qualcuno riesce a toccarmi con un verso, una canzone, una frase.
Ogni tanto dico pure “GRAZIE!” a voce alta. Fatelo anche voi.

La cultura e chi la fa sono un atto di coraggio.

Ma gli stronzi che non provano veramente dolore non lo sanno e continuano a svalutarla e a deridere chi la fa nei modi più beceri e villani possibili, e peggio, convincono gli ingenui a fare ugualmente.

Una notte avevo la febbre così alta e un giro così figo di basso in testa che prima di prendere una pastiglia ho registrato tutto sul cellulare.
Una notte non camminavo per l’effetto del cortisone e sono scesa a tentoni per comporre una canzone.
Ogni giorno a letto pensavo al NoShoes Studio e alle chitarre da registrare.
Ho la Musica e le Parole in testa.
Chiedete a un vostro amico creativo se l’arte ce l’ha in testa 8 ore al giorno o un pelino di più.
Questo è amore.
Di più, è la mia Vita. Ciò che mi dà gioia.
Vorrei farvi capire dove sono Verità. E quanto, oltre al mio sistema immunitario, darei per vivere d’arte.

Stronzi che non sapete cos’è lottare, questo è infilarsi i guantoni e scendere sul ring.
Non è fare gli Eroi, è vivere.
Scendere sul ring è anche vedere ogni giorno i risultati peggiorare, o allontanarsi, o svanire, ma non buttare i guantoni perché sai cosa vuoi.
Scendere sul ring è ritrovare il coraggio in chi/cosa non è Inferno e averne cura immensa.
Scendere sul ring è condividere la tua lotta con altri lottatori, e ripartire. Perché non puoi far altrimenti.

Al tempo piansi di vergogna e di umiliazione perché non ero come gli altri.
Ora m’interessa solo di imparare bene a difendermi dagli stronzi, e a dare i calci e i pugni giusti.
Per tutto il resto ho la mia Verità.
Grazie a tutti quelli che si sono presi cura di me. Grazie di cuore.

“Il mondo ti spezza il cuore in ogni modo immaginabile, questo è garantito. Io non so come fare a spiegare questa cosa, né la pazzia che è dentro di me e dentro gli altri, ma indovinate un po’? Domenica è di nuovo il mio giorno preferito! Penso a tutto quello che gli altri hanno fatto per me e mi sento tipo… Uno molto fortunato!”