11×01 “Come va con l’album?”, Antifragile

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16 settembre 2016
Dai, che la prossima estate parte il mio tour“, replico scherzosamente.
Il tuo tour. Mettitela via che per i primi 3 anni un fonico tuo non te lo potrai permettere. Passi il live-set da sola, ma con la band sarà dura. Dovrai occuparti di pagar loro la serata, essendo turnisti. E se giri per l’Italia? Un noleggio furgone. Il booking? Se è bravo riesce a trovarti almeno 20 date, e vorrà giustamente una percentuale. Videoclip di nuovi singoli. Concorsi. Ufficio stampa.
Mettiti in testa che per questi primi anni, se le cose andranno bene, non guadagnerai. Suonando non ci si arricchisce. Ma questo è il mestiere che abbiamo deciso di fare“.

Rasoiata artica. Giusta rasoiata artica.
In studio abbiamo appena registrato le voci definitive di “Ciclista e Palombaro“, forse mi hanno assunta in una scuola di musica.
Dovrei festeggiare e mi viene il terrore. Guido verso casa e per la prima volta in un anno penso di aver fatto una cazzata.

E’ la fatica di un anno in studio. Del km 30 mentre stai correndo in una maratona, come dice Federico.
E’ la stanchezza e il dolore di una malattia sottile e bastarda che mi infastidisce da Aprile e colpisce nei momenti più insoliti.
E’ la randomness di una nuova folle incognita che incombe su me, Stefano e il NoShoesRecording Studio. Un computer rotto, la corrente che salta, le spese improvvise, le sorprese sgradite.
E’ il mio mescolare tutto insieme in un bolo emozionale unico.

Ma scusa, com’è che Levante ha fatto un album in tre settimane e tu ci metti un anno?

Incasso la battuta. Ma francamente un po’ mi rode il culo.
Eppure, mentre guido verso casa, so che Stefano ha ragione.
Che con i dischi non si guadagna abbastanza per fare un album con un budget più alto, che bisogna inventarsi sempre una nuova alternativa per arrivare a fine mese.
Che tutto quello che ho ottenuto con Musicraiser se ne andrà in ufficio stampa, merchandising, bollini SIAE, stampa CD, grafiche, video e foto varie, venderò solo i dischi ai concerti, suonerò e poi partirà tutto daccapo. Lo so.
Che tutto quello che sto facendo non è abbastanza, ma almeno ci sto provando.
Che non potrò rilassarmi dopo le registrazioni perché partiranno i live.
Che sono sola a fare un lavoro di una squadra.
S O L A.
Ma voglio essere ottimista.

“Come va con l’album?”

La domanda più gettonata dell’ultimo periodo.
Spero vada bene. Le ho sviscerate così tanto queste canzoni che ormai ho perso la giusta distanza. Va che dei giorni mi par di non sapere più cantare, sono sotto a una lente d’ingrandimento gigantesca che esalta tutti i miei difetti e mi ripeto ridendo “Ma faccio così cagare?” e dei giorni non riesco nemmeno a rendermi conto di quanto sto crescendo ascoltandomi e riascoltandomi.
Provo a fare cose che non ho mai fatto in dieci anni di lezioni di canto. Francamente? Ci sto provando. Non so se sia giusto o sbagliato. Lo dirà il tempo.
Lo studio è una palestra, sto buttando il meglio che ho.

Di fianco a me, spalla contro spalla, ho un produttore antifragile. Siamo stanchi entrambi, ma ogni volta che torno in studio mi ricordo perché ho scelto di lavorare con lui: perché ha passione, perché non molla, perché è un onesto, nei giorni in cui un take non va, in cui manca qualcosa o bisogna cambiarla completamente e allora partono i silenzi o le bestemmie a scena aperta, nei giorni in cui basta aggiungere un’allegra fischiettata per svoltare un brano o quando senti che fuori cantano la tua canzone.
Se uno allenta la corda, l’altro la tira. E si rimane in equilibrio.

Spesso mi dimentico che la musica è qualcosa di magmatico, lunatico. Il NoShoes è il posto dove ho riso e ho pianto di più. Dove ho amato follemente quello che stavo facendo o ne avevo persino la nausea.

“Questo è tipo il km 30 alla maratona. Ovvero il vero muro. Se passi il km 30, poi chiudi i 42. Tutti si piantano attorno al 30. Ora tu sei allenata, e sai bene che la fatica è molta. Magari rallentando un attimo, non mollando, la maratona la porti a casa”

La solitudine colpisce le persone che meno la meritano nei momenti in cui meno la meritano. Ma quando la vivi capisci una cosa: che non sei la sola a provarla in quell’istante.
Non vi dirò che è una vita facile, ma è la vita che mi rende libera.
E’ rischiosa la vita di chi non si accontenta e non ci si racconta palle? Hai voglia.
E’ sempre meglio dell’anno prima, in cui ero in un ufficio, in una casa, in una città in cui credevo di stare bene? Sì.
E’ stata un’estate pazzesca, in cui ho suonato-visto cose-conosciuto gente più che ho potuto? Diamine, sì!
Siamo in ritardo con l’uscita? Oh, sì. Ma uscirà come vogliamo.
E allora.
Le cose belle hanno bisogno di tempo.

Epilogo.
Il prossimo album vorrei farlo dark. I bassi alla Joy Division, la batteria elettronica, flanger, chorus, delay. Ho già in mente le atmosfere“.
“Allora bisogna ascoltare i She Wants Revenge. Sonorità dark-wave ma in chiave moderna, evitando di fare alcune merdate indie che si vedono in giro oggi”.
“Oh, bisogna finire questo e già parlo del prossimo. Ho dei problemi seri”.

Sì, è la verità. Sono malata in testa, non sono normale.
Voglio finire questo disco. Ho vive speranze che possa piacere. Penso al prossimo album.
Una che ha l’evidenza davanti agli occhi eppure vuole continuare a suonare in Italia non è normale.
Eppure.
Pazza e recidiva.

“Ma la cazzata l’ho fatta l’anno scorso quando ho iniziato Antifragile o prima?”.
Mi rispondo da me.

[Ph: Matteo Sandi]

8×01 “Amore, medicine e chitarrette”, Antifragile

Interrogazione di storia.
“Bene Bonomo, su cosa si è preparata?”
“Beh veramente prof, sugli Assiro-Babilonesi”.
“Molto bene. Mi parli dello slancio vitale di Bergson”.
“Ma come prof…”.
“Beh scusi, fa sempre parte del programma scolastico”.

Ho riassunto in poche parole cosa significa registrare le chitarre in studio con Stefano. Sono sempre stata una precisina, una di quelle che deve studiare la parte cento volte per evitare figuracce, ma soprattutto per non far perdere tempo a chi ho affianco. Invece, dopo aver fatto la brutta copia di come avrebbero dovuto suonare sopra batteria e basso, mi ritrovo a fare tutto daccapo. Al momento.

In quei momenti schizzavo malissimo. All’inizio.
“Non ne sono in grado”.
Adesso è quasi sfidante. Anzi, è sfidante.

I più sanno che il mese di aprile l’ho passato completamente a letto, con la faccia sformata, febbre alta, incapace di camminare. Poi i medicinali sbagliati hanno fatto il resto, bloccandomi le mani, togliendomi il sonno, disturbando pesantemente il mio umore.
Finita la malattia, è arrivato un sovraffaticamento muscolare alla mano sinistra.
Mano quasi ferma per due mesi. Per una che deve registrare le chitarre definitive del suo album praticamente una pacchia insomma.

Ma non mi sono persa d’animo. Ne ho approfittato per fare una cosa.

Da quando ho 15 anni, con tantissimi stop-and-go, studio chitarra elettrica.
Devo essere sincera, non ho mai avuto questa grande mano rock, ma non è stata tutta colpa mia.
Sin dall’inizio le Accademie o le Scuole partono con UNA COSA CHE A ME NON E’ MAI ANDATA GIU’: GLI ASSOLI DI CHITARRA.

Per me l’assolo di chitarra è un atto di egoismo. Lo faccio se necessario, altrimenti fottesega.
Vuoi mettere la chitarra ritmica?

Qualsiasi tipo di insegnante medio (salvo rare ed intelligenti eccezioni) parte dicendoti di ascoltare nell’ordine:
Steve Vai
Joe Satriani
Paul Gilbert
Yngwie Malmsteen
e tanti tanti altri.
Insomma, dei virtuosi.

Poi vai in sala prove con gli amici e non riesci a fare la chitarra ritmica di “Smells like teen spirit“, non hai gusto nella scelta del suono e dei vari stili. Ma shreddi da Dio e fai le pirole a 180bpm.
Poi vai a fare il turnista in studio di registrazione e ti dicono “Vorrei un assolo meno eroico. Fammi una chitarra marcia”. (cit. Alberto Milani). E tu vai in crisi.
Va tutto benissimo.

Beh, dicevamo. L’inferma Erin se ne sta a letto e ne approfitta finalmente per cercare il tipo di suono che le piacerebbe avere. E che cosa fa? Cerca i chitarristi che fanno quel tipo di musica che le piace. E fatalità sono chitarristi che le Accademie non cagano nemmeno di striscio.
Ascolta Jeff Buckley, i Pixies, i Killing Joke, i Sonic Youth, i Joy Division, i Radiohead, gli Stooges, i Cure, i primi U2. Ascolta con grandissima attenzione finalmente i Led Zeppelin e gli Ac/Dc.
Ascolta le ritmiche, prova a riprodurre gli assoli con la voce, ma giusto per sfizio.
Ascolta perché non riesce a suonare, ma le sue mani hanno già nuove idee. E ha dei suoni in testa.

“Questa malattia ti ha fatto veramente bene! Il suono è migliorato tantissimo!”
(Khaled Abbas – il mio insegnante di chitarra MMI, giovedì 26 maggio… Due settimane che non toccavo i manuali)

“L’impressione che ho, sentendoti, è che tu vuoi fare bene il tuo compitino. E’ tutto preciso e a tempo, ma è scolastico. Non mi interessa. Voglio un suono anche sporco, ma di cuore. Voglio sentire le ghost note, il carattere!”

“Suoni staccata. Accompagna il suono fino all’ultimo”
(Stefano, 23 aprile 2016 – registrazioni di “Anima Nera”)

“Pensa a Keith Richards. Questo riff se lo fai tutto a pennate in giù lo ammazzi. Ascoltalo bene. Magari non sarà tecnicamente giusto, ma senti che corpo”
(Stefano, 24 maggio 2016 – registrazioni di “Fango”)

Ogni commento mi faceva diventare sempre più piccola alimentando la voce che sì, ero una chitarrista scarsa.
Ma il mio problema non era la tecnica.
Mancava il collegamento cervello-cuore-mano.
Mancava il “proviamoci, comunque vada”.

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[Una rara foto che ritrae Stefano Pivato non di spalle. Ph: Andrea Bonomo]

Un mese in studio con un istintivo mi hanno dato molto di più di 15 anni di chitarra. Mi hanno insegnato il controllo ma anche l’istintività, la ricerca, l’accettazione di quella voglia di buttare via tutto per rifarlo di sana pianta, la voglia di suonare e di divertirmi. Di lasciarmi andare, finalmente. Chiudo gli occhi e mi diverto.
Dopottutto per me suonare è un’esigenza. La mia frustrazione nasceva dal non fare uscire tutta me stessa.
Per quanto ti dicano le cose, le capisci solo quando ti passa un tram sopra.
Siamo sulla buona strada.

La mano ogni tanto fa male. Khaled mi dice di non darci troppo peso, a volte sono cose psicosomatiche.

E negli ultimi due live, magicamente riesco a fare delle piccole improvvisazioni che non fanno troppo cagare.

“Suoni molto bene la chitarra, complimenti! Che tecnica!”
(Astanti al live al Comarò, astanti al live al Lighthouse Pub probabilmente alticci)

Sia ben chiaro, io sono FELICE di frequentare un’Accademia e dei continui input che riesce a darmi. Khaled Abbas è un insegnante eccezionale. Un altro chitarrista che mi piace un mondo e vi consiglio di frequentare almeno una volta una sua clinic è Alberto Milani.
Ma lo dico per me e per gli altri chitarristi: nessun paraocchi. Formatevi anche esternamente. Siate curiosi per conto vostro, cercate il suono, il cuore, oltre alla tecnica. Ascoltate di tutto e rubate dai vostri chitarristi a piene mani.
Cazzeggiate. Cercate di capire gli accordi usati nel funk, i lick blues, il tempo nel punk, lo sporco del grunge, l’effettistica della new wave o del dark.
Ascoltate gli altri strumenti! I giri di basso dei New Order, le batterie dei Nine Inch Nails, il pianoforte di Tori Amos. Altrimenti sarete come quei musicisti che non sanno suonare senza uno spartito davanti.

Ma che cazzo di bello è successo in questo mese?

6×01 Perché chiamerò il mio album “Antifragile”

La prima volta che sentii parlare di resilienza fu ad una conferenza. Si parlava di uno studio fatto su alcuni minori che avevano vissuto forti condizioni traumatiche: terremoti, violenze, guerra, abbandono, maltrattamento, abuso sessuale.

Alcuni di loro non manifestavano un danno biologico in maniera automatica. Anzi, in una certa percentuale non presentavano nessuna conseguenza psicologica, nemmeno nel lungo termine, sebbene fossero stati vittime di ignobili sorprusi.

Erano bambini resilienti. Resilienza, parola presa in prestito dalla metallurgia, è la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita di fronte alle difficoltà. Come un metallo resiste alle forze che vi vengono applicate.

La cosa mi affascinò, e mi colpì osservare come il nostro corpo possa reagire bene a dei carichi emotivi che visti da fuori potrebbero sembrare insostenibili. Mi colpì osservare che quei bambini avevano saputo assorbire quelle esperienze e restituirle in forma non negativa. Non li invidiavo, li ammiravo. In una forma del tutto inconsapevole avevano saputo ribaltare il punto di vista sulla situazione ed uscirne migliori.

Perché si cresce e tutto sembra complicarsi? Perché quando cresciamo siamo guidati più dalla paura e dai mille effetti che potrebbero avere i nostri comportamenti verso una determinata cosa/persona? Per i lacci. Le reti. Le relazioni che si stringono. Più si va avanti e più la maglia si allarga e al nostro “io” si aggiunge un contesto che ci stiamo costruendo via via. Eppure quante volte il contesto che ci costruiamo ci soffoca, non ci sta più su? Quante volte abbiamo la forza di abbandonarlo per qualcosa che si avvicina di più alla nostra idea di felicità? Quante volte ci manca quella forza ed è solo un modo per scappare da noi stessi? Quante volte pensiamo sia sbagliato il contesto, e in realtà siamo noi ad aver bisogno di essere ritarati? Uh, quante domande ti fai, Elisa.

La seconda volta che sentii parlare di resilienza si era già evoluta in antifragilità. Ero in un gruppo Facebook dove tra copywriter ci si scambiava link e informazioni, e uscì fuori un articolo su un libro di Nicholas Taleb, filosofo, matematico e saggista libanese. Il titolo “Antifragile. Prosperare nel disordine” e mi incuriosì la recensione.

Sappiamo che la nostra incapacità di comprendere a fondo i fenomeni umani e naturali ci espone al rischio degli eventi inaspettati. Ma l’incertezza non è solo una fonte di pericoli da cui difendersi: possiamo trarre vantaggio dalla volatilità e dal disordine, persino dagli errori, ed essere quindi antifragili. Il robusto sopporta gli shock e rimane uguale a se stesso, l’antifragile li desidera, e se ne nutre per crescere e migliorare.

L’incertezza, lo stress, la fragilità. Ho dovuto fronteggiare spesso come quasi trentenne queste situazioni, un po’ per mia causa, un po’ per cause di forza maggiore.

Alcune cose traggono beneficio dagli shock, prosperano e crescono quando sono esposte a mutevolezza, casualità, disordine e fattori di stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Ciò nonostante, a dispetto dell’onnipresenza del fenomeno, non disponiamo di un termine che indichi l’esatto opposto della fragilità. Per questo parleremo di antifragilità. L’antifragilità va oltre il concetto di «resilienza elastica» e di robustezza. Una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima: l’antifragile dà luogo a una cosa migliore. Questa proprietà sottende tutto quanto cambia nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico.
L’antifragilità ama la casualità e l’incertezza, il che significa anche amare gli errori, o meglio una particolare classe di errori. L’antifragilità possiede una proprietà unica nel suo genere, che ci permette di venire alle prese con l’ignoto, di fare certe cose senza capirle e di farle bene. Permettetemi di essere più drastico: siamo molto più bravi a fare che a pensare, grazie all’antifragilità. Preferirei mille volte essere stupido e antifragile che estremamente intelligente ma fragile. L’antifragilità va oltre il concetto di «resilienza elastica» e di robustezza. Una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima: l’antifragile dà luogo a una cosa migliore. Questa proprietà sottende tutto quanto cambia nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico.

E poi tante altre belle considerazioni sul fatto che non sempre una crisi ha una accezione negativa, che un evento negativo che sconvolge la tua serenità ti costringe a ricostruire un equilibrio, che lo stress aiuta spesso a creare di più (!).

Il mio concetto di antifragilità è la consapevolezza che nonostante tutto io sarò sempre io. Saprò sopravvivermi. Imparerò dai miei successi e dai miei errori. Dai giorni in cui ho difficoltà a stare al mondo, dai giorni in cui nonostante tutto mi sento grata alla vita. Qualsiasi cosa accadrà saprò darmi una scrollata di spalle e camminare diritta a me.

Per qualche mese ho pensato di cambiare il nome dell’album, da “Antifragile” a “Non mi somiglio per niente” vista la grande differenza tra questo lavoro e “Terzo Tempo” con La Cantina dei Bardi, e invece, ora come non mai, lo terrò.
L’ho sposato come mio modo di vivere. E’ impossibile resistere a tutto, è deleterio spezzarsi in continuazione. Io so che posso spezzarmi in qualsiasi momento, ma so anche come ripararmi. E a essere d’aiuto agli altri quando si spezzano.

Quante persone dicono la verità solo quando sono vulnerabili. Io li trovo di una bellezza sconvolgente, perché non hanno filtri.
Mi sento fuori posto se non ho un lavoro regolare e sono tornata a vivere dai miei dopo anni di indipendenza economica? Sì. Ma non potevo fare altrimenti. Non posso accontentarmi di una realtà rassicurante per gli altri e che a me puntualmente fa venire l’orticaria.
Ora che l’ultima carta da gioco è stata gettata sul tavolo, l’ultimo velo è stato tolto dall’opera io mi sento scoperta, vulnerabile, più che mai incerta. Cammino sopra un campo minato, e tuttavia non sono ancora saltata per aria. Ho capito di essere una non-lineare, ma tuttavia onesta. Non so cosa mi accadrà. Non lo posso prevedere.

Questo album è un esercizio di imperfezione. Non vi farò vedere quanto suono e canto bene, non vi farò vedere quanto ci so fare con gli arrangiamenti. Sarò io. Non vi dirò palle. Vi dirò quando sto bene, quando sto male, quando ho voglia di ridere, quando ho voglia di piangere. Sarò umana. Mai come ora son stata così sincera.

5×01 “Ciò che deve accadere accade”, Antifragile

Novembre 2015

Sono stati giorni di entusiasmo e tempesta. Di panico e serenità. Di sconforto e impotenza, ma anche di incontri e scambi intensi. Sembra una banalità, ma scegliere di vivere facendo ciò che si ama migliora di molto i rapporti sociali. E migliora la qualità dei discorsi a tavola. Nel mio caso si tratta di una vera e propria forbice: quando ho uno stipendio fisso mi lamento, divento un’ombra, sono circondata da persone che mi infastidiscono, adesso che lotto per arrivare alla fine del mese sono circondata da persone più o meno lontane che mi vogliono bene senza chiedere nulla in cambio.
La mia indole è sempre portata a ripagarli in un qualche modo, ma per ora posso offrire loro la mia amicizia e le mie parole. O del cibo, molto cibo. Sembra che a loro vada bene comunque.

L’immagine che più mi rappresenta in questo periodo mi raffigura sorridente seduta in cima a un burrone. C’è pericolo e c’è vento, ma io sono serena, aspetto, sento dei passi che si avvicinano. Sono distanti ma in qualche modo mi proteggono. Io non posso tornare indietro, né saltare. Posso solo aspettare e dire la verità, non riesco, non so più mentire.

Sorrido sempre: quando sono nervosa, quando mi imbarazzo, quando voglio esserti vicina. Le lacrime le tengo per me, la mattina presto quando mi sveglio, quando penso a un amico che non c’è più, la notte quando ripenso alle ingiustizie e le dissonanze quotidiane.

In tutto questo grande rumore di fondo il disco cresce, e ci avviciniamo alla fine della pre-produzione. Mancano solo due pezzi, “Parole al vento” e “Domani inventerò“. Ogni volta che ritorno in studio, penso di avere una grande fortuna: in quegli interminabili pomeriggi e sere premo il pulsante “pausa” alla vita. Scappo, gioco, trovo il suono e la dimensione ideale dei miei pensieri.

“Per me rappresentare è vivere di più… E’ aggiungere, è idealizzare, trasfigurare. Aggiungere emozioni alle emozioni, passioni alle passioni… Dove finisce la rappresentazione, finisce la realtà” (Monica Vitti)

Il problema principale è tornare a casa. La macchina che si rompe, i lavori, i soldi, gli ospedali, le prime rughe d’espressione, il primo capello bianco, perciò la conseguente lotta ai segni dell’età, alle prime rughe superficiali e agli inestetismi della cellulite, oddio i 30, studio poco, le cose che perdo, le cose che dimentico… Penso a così tante cose che è difficile ordinare tutto in un discorso logico.

Mi ero preparata un bel discorso, sapete, sul ruolo del produttore. Su come un’intuizione geniale possa far diventare un pezzo reggae una hit disco sbanca-classifiche e lanciare gruppo e relativo disco nell’Olimpo della musica internazionale. Ma poi al solito dimentico la retorica e parlo del superfluo.

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Chris Stein, il chitarrista dei Blondie, lavorava da due anni su un giro reggae dal titolo Once I had love. Il gruppo la suonava spesso ai concerti, anche in chiave rock. Quando arrivarono in studio per registrare l’album Parallel Lines, il produttore Mike Chapman ascoltò il giro di accordi e l’incipit, rimanendone colpito. “Once I had a love and it was a gas… Soon turned out had a heart of glass. Questa è una potenziale hit. Ma il mercato americano non accetterà mai il reggae. Riarrangiamola in chiave disco, è questo quello che va ora. E bisogna assolutamente cambiare titolo”. Nacque Heart Of Glass. Il resto è storia.

Riascolto le canzoni e gli arrangiamenti, e penso che quest’album sarà come me. Arrabbiato, melanconico, dolce, ironico. Io, che rido tanto, ho imparato a ridere e far ridere per sopravvivivermi. Mi serve come balsamo per togliere le croste dell’umiliazione, della vergogna, dell’inadeguatezza. Le ferite rimarranno sempre, ma la risata mette tutti sullo stesso piano, e per questo l’adoro. Avrò sempre il desiderio di farmi piccola piccola come un fagotto per non farmi notare, ma il ridere di me mi consente una piccola violenza, il mettermi in gioco, il non implodere in me stessa.

Il produttore è qualcuno che vede oltre te. Mette ordine nei tuoi pensieri musicali disordinati e li canalizza in un’unica direzione che sembrava impossibile. Sa trovare il diamante in un ruvido e grezzo pezzo di pietra chitarra e voce. Aggiusta, lima, cesella, cambia, stravolge dove necessario.
Non deve essere una scelta casuale. La ricerca del produttore può essere anche lunga perché devi dargli fiducia totale. Il produttore è un suono, un gusto particolare. E poi, proprio perché la scelta è stata fatta a monte, devi mettere pochissima bocca o nessuna nelle sue scelte artistiche.
Lui/Lei ha il dovere di fare suonare l’album da paura, tu hai il dovere di consentirgli di toccare i tuoi vestiti, le tue parole, il tuo corpo per fare uscire quello che realmente sei, e che inconsapevolmente non conosci.

Penso a Monica Vitti, alla sua voce fragile, roca, eppure sua, distinguibile tra milioni di sussurri e grida.
Penso a me. Non sono Steve Vai. Non sono Christina Aguilera.
Ad un certo punto qualcuno ci prende per mano, e bisogna avere la forza di camminare, nonostante tutto.
E allora lavorerò sui miei difetti, perché proprio in quelli sono io.

3×01 “Domani inventerò”, Antifragile

“Ai confini della noia, ci sono tonnellate di idee. Io non guardo la tv, non gioco con gli amici. Lascio semplicemente che il tempo scorra”

1 giugno 2015

Padova, esterno notte. Terrazza di un grande palazzo. Campo lungo. Si intravede in controluce una ragazza  seduta per terra appoggiata ad muro.
Controlla il telefono, osserva il cielo in lacrime.
Una chiamata persa. E’ Chiara, anima affine. Stessa indole, stesse paranoie, stesso modo di vedere le cose.

Nello stesso momento

Città imprecisata, esterno notte. Particolare su una mano che infila una chiave in una toppa. Si allarga l’inquadratura e si vede un uomo di spalle, un po’ ricurvo. PP sul suo volto: lo sguardo è un misto tra il dolente e il rassegnato.
“Chi cazzo me lo fa fare? Qua chiudo tutto”

25 settembre 2015

“Siamo riusciti a buttare giù tutte le chitarre guida, ad eccezione di questo pezzo. Come l’hai accompagnato suona bene, ma sarebbe un arrangiamento troppo scontato… E mi sto scervellando da giorni per capire che carattere dargli per non cadere nel banale. La cosa bella di questi momenti d’impasse è che poi l’intuizione arriva tutta in un botto”
“Speriamo”

1 giugno 2015

“Ohi, ti ho chiamato e scritto prima… Esci stasera?”
“Nel credo di essere nel mood adatto, Chiara…”
“Ehi, che c’è? Qualcosa che non va?”
“L’album non si fa… Sono… Non riesco mai a costruire niente. Distruggo sempre tutto. Non faccio altro che allontanare le persone. Non ho più una casa! Non so che lavoro fare e adesso pure questo album non si fa. Non so cosa voglio, o meglio lo so ma mi cago addosso. Ci ho provato un sacco di volte a ripartire, ma ogni volta succede sempre qualcosa e non ce la faccio più Chiara, credimi. Ogni volta si aggiunge sempre qualcosa, e sono stanca. Non ho più forze, questa cosa della casa mi ha letteralmente prosciugata”
“Dai, vengo subito. Dove sei? Passo”
“No, ti prego. Mi conosco, non sarei in grado di parlare”
“Sicura?”
“Sicura”
“Ok… Allora stiamo un po’ al telefono… Prima cosa: cosa mi dici sempre tu? Una cosa alla volta. Nel bene e nel male le cose si risolvono sempre.

La ragazza fissa il cielo. La voce di Chiara è ferma e decisa. Se avesse avuto un bisturi in mano, in quel momento avrebbe eseguito un’incisione perfetta

So che non posso fare e dire nulla per risolvere i tuoi problemi. Ma posso raccontarti una storia. Oggi sono passata in libreria e ho letto un libro per bambini. Si chiama “Domani inventerò” ed è la storia di un orso blu che deve fare un sacco di cose ma le rimanda sempre a domani, perché… Perché ha paura, non ha tempo, insomma si dà un sacco di giustificazioni. E alla fine dice

“Al confine di ogni confine c’è l’ignoto. Se salto, dove andrò? E se c’è qualcosa di brutto? O di sbagliato? E se c’è qualcosa di nuovo?”

Volti pagina e

Spoiler title
l’orso diventa giallo. Finalmente non rimanda a domani, salta.
Credo che la cosa migliore sia decidersi a saltare. Vivere comunque. Sì, è un periodo di merda. Ma per quanto lungo è circoscritto, Eli. E succederà ancora? Sì. Ma sarai cambiata tu, e lo affronterai in maniera differente. So che saprai sistemare le cose.”

Sistemerò le cose.

Ricordo esattamente cos’ho fatto dopo. Mi sono alzata in piedi, sono scesa e mi sono messa a letto.
“Domani inventerò è la metafora della vita artistica. Ogni giorno si deve inventare per vivere. Ci si sente bene solo quando si crea. Cosa potrei fare se fossi felice? Se non posso esserlo, almeno lo immagino”.

Ho preso il mio blocco appunti e ho scritto i primi versi

Non mi sdraierò mai più sul letto / Non piangerò al pensiero che mi sto perdendo tutto
Domani inventerò / Avrò una casa al mare / Avrò da lavorare / E scriverò canzoni allegre / Domani inventerò… Sistemerò le cose
Giovanni Ribisi, non ti voglio mortificare, vergognati (cit.).

1 ottobre 2015

Domani inventerò” ha trovato la sua chitarra guida, merito anche di Cat Power. E’ un testo importante. E’ dedicata a tutte le persone che hanno un’idea di giustizia impossibile nel mondo in cui vivono e si rifugiano nell’immaginazione. Alle persone oneste e baciate dalla sfiga che ogni giorno cercano di vivere con i frutti della loro inventiva. A chi è si è smarrito. A chi si sente (o si è sentito) solo, inadatto, impotente.

Domani inventerò” è un bellissimo libro di Agnese de Lestrade illustrato da Valeria Docampo. Leggetelo: la seconda cosa che farete è procurarvi subito dopo “La grande fabbrica delle parole”.

C’è un paese dove le persone parlano poco. In questo strano paese, per poter pronunciare le parole bisogna comprarle e inghiottirle. Le parole più importanti, però, costano molto e non tutti possono permettersele. Il piccolo Philéas è innamorato della dolce Cybelle e vorrebbe dirle “Ti amo”, ma non ha abbastanza soldi nel salvadanaio. The story of my life, insomma.

Ogni volta che mi sveglio e penso a come guadagnarmi da vivere, ogni volta che una cosa non va, ogni volta che mi sento derisa o incompresa  ogni volta che un acuto non parte o perdo il tempo, ogni volta che non posso esserci, ogni volta che una frase mi esce sbagliata, o per troppo amore non riesco a pronunciarla, penso che il mio emisfero destro mi aiuterà. Me lo ripeto in testa: sistemerò le cose.

2×01 “Questa bestia nera in me”, Antifragile

15  – 22 settembre 2015

Lo so, dovrei farmi più selfies di me che sto in studio di registrazione, ma in realtà tempo per cazzeggiare ce n’è stato davvero pochissimo, e vi dirò una grande verità: detesto farmi gli autoscatti. Mi imbarazzano a morte ma soprattutto non so farmeli! Prima di uscire un minimo decente devo smerigliarmi la faccia per un’ora e, pigra come sono, molte volte finisco per fotografare le mie chitarre (<3). Riconosco però che essendo Facebook una rete generalista a mò di Rai e Mediaset, un primo piano buca molto di più rispetto a un link intelligente e scavalca gli algoritmi di posizionamento, e perciò per esigenze di copione (cose importanti tipo livedischisessions etc) ogni tanto vi beccherete me fare le cose più inutili, tipo sorridere.
MA NON DIVAGHIAMO.

In queste due settimane Stefano e io stiamo ultimando la prima primitivissima parte in cui capire che taglio dare ai vari pezzi.  Ogni volta il Maestro accende il suo POD e proviamo per ore a capire come sostituire le guide con accompagnamento da chitarra balneare a favore di riff (questi sconosciuti), ritmiche, intenzioni differenti. Siamo stati quasi a rischio Jimi Hendrix in un arrangiamento, peccato non sia passato. E’ fantastico e al tempo stesso allucinante. Ce ne stiamo come due autistici senza parlarci per interminabili minuti e proviamo qualsiasi cosa ci passi per la testa alla tastiera e poi ci confrontiamo. A volte l’intuizione arriva subito, a volte ci stai un pomeriggio e poi distrattamente ti esce l’idea migliore della giornata. Una cosa che ho imparato è che non bisogna affezionarsi troppo alle prime e solo alle proprie idee, perché spesso limitano la ricerca. E’ una rogna cercare il giusto giro dopo 8 ore, ma ne vale la pena.
Ora di canzoni ne mancano solo due, e da come stanno evolvendo le cose verrà fuori una cosa (lo dico piano perché così almeno non capite bene e non ridete forte) alternative rock. Ho sempre ascoltato tonnellate di album del genere, dai Garbage a Pj Harvey, Tori Amos, Fiona Apple, Hole… fino all’ultima scoperta suggerita da Stefano, Juliette Lewis, ma non ho mai creduto di poterlo fare realmente. Ed è una cosa assai strana. Mi spiego meglio.

Tutti pensano che Jimi Hendrix fosse un tipo poco attento alla tecnica e fan del “buona la prima!”, in realtà cercava il suono perfetto fino alla paranoia, sfinendo i suoi stessi compagni dell’Experience nelle lunghissime sessions di registrazione.
Che pezzone. Non avete mai ascoltato l’album dove è presente questa sberla? Male, malissimo.

Sto suonando in una maniera completamente diversa da quanto fatto in questi anni, il che mi fa sentire molto incapace da un lato pratico e dall’altro gasata ai massimi. E’ come se stessi imparando a suonare la chitarra di nuovo. La stessa cosa per il cantato. Sono partita con un’impronta molto rock e cantando in inglese, poi sembrava che non fosse il mio genere e ho ripiegato sull’acustico, che tra l’altro era ed è molto più facile da portare fuori nei locali. Il risultato è aver creato una comfort zone in cui so di fare bene, ma escludo a prescindere una gamma di suoni che magari darebbero la spinta più. Perchè? Bella domanda. Vivo questo momento di RI-creazione sdoppiata tra il “Wow! Suonerà da paura!” a “Oddio, saprò renderlo davvero live? Saprò cantarlo con la giusta intenzione e grinta?“.

comfort_zone

A volte la comfort zone è peggio della friendzone.

Diamo tempo al tempo comunque. Ci sarà il tempo per capire come promuovere l’album, come trovare date, come vestirmi e truccarmi, ma per ora mi preoccupo di suonare bene. E’ come imparare a parlare di nuovo, o meglio, imparare una lingua straniera. Ci vuole un po’ di esercizio, dicono.

La cosa che mi sto ripromettendo da quando ho iniziato è di essere il più sincera possibile, e di prendere tutto come un’occasione buona per imparare. Sono sempre super severa con me stessa, ma ci sta, l’importante è che le incertezze non diventino limiti invalicabili.
E dopo questa chiusa alla Raffaele Morelli, vi saluto, alla prossima!

Ps. Domani controllate il blog, ci sarà una bella sorpresa!

1×01 “Che cosa ti emoziona?”, Antifragile

Luglio 2015
18 canzoni in tutto. Le guardo, le risuono, controllo gli accordi, segno i bpm, sistemo tutti i testi.
“Cosa potrebbe piacere di più? Che cosa potrebbe colpire di più? Quali sono le canzoni più belle?”
E’ come chiedere a una madre che figlio preferisce. Per me sono tutte importanti, alcune ammetto ancora un po’ acerbe, ma hanno tutto il loro significato, il loro perché. Se ne scelgo una e ne scarto un’altra mi sembra di fare un torto a me stessa e sono punto a capo.

Questo perché in Antifragile verranno inserite dalle 8 alle 10 canzoni. E la bastiancontrario che è in me mi dice di non fare la fighetta mainstream ma di scegliere le più sincere, la marchettara invece sostiene di scegliere con malizia. Perché avrò un solo colpo in canna e devo mirare bene.

Ce ne sono alcune scritte qualche anno fa, come “Scampo”. Mi ricordo bene dov’ero quando ho composto i primi versi. Ero in un appartamentino all’Arcella, notte fonda, e la mia compagna di stanza non c’era. Stavo dormendo e mi svegliai di soprassalto per un rumore dalla strada.
“Marta?”
Silenzio.
Marta non c’era, c’erano le sue lenzuola senza una piega e le sue scarpe ai piedi del letto.

Te ne sei andata senza dirmi più niente / Hai pure lasciato le scarpe in salotto

Presi il blocco appunti e cominciai a buttare giù le prime righe, senza pensare troppo.

Sei tornato e mi hai riempita di botte / Tante ma tante che ne ho perso il conto

Wow. Una storia che si scrive da sola. Ovviamente non stava parlando di me, nè di Marta. Da un’immagine, dall’incipit è uscita così. Una donna vittima di violenza domestica.

Amore mio non c’è via di mezzo / Amore o odio e niente in mezzo

L’ultima nata è invece “Non mi somiglio per niente”. Vergata sotto la stessa cerata coi girasoli che ha ospitato Maddalena, Waterboarding, Offerta Libera.

E già il titolo dice tutto. Quando ero ragazzina giocavo a fare i conti con quello che avrei fatto a una data età. A 29 anni mi vedevo realizzata lavorativamente, con una casa, forse sposata (ma non è mai stato necessario), comunque in una posizione abbastanza stabile. Gli anni a venire hanno spazzato via tutte queste convinzioni, e in più ci si mette quel certo peso sociale che una donna “a una certa” se non si sposa e fa figli è per forza una stronza arrivista, e se si sposa e fa figli lasciando il lavoro o chiedendo il part-time è una sottomessa. Mi son divertita a inserire una serie di frasi fatte che si sentono da tv, giornali, annunci online:

Indipendente, solare, colta single per scelta, automunita / Da 110, mamma felice donna in carriera, donna fallita / Sposata presto, sottomessa / Un po’ puttana, un po’ madonna / Misteriosa, posata, strana traditrice recidiva

19 agosto 2015 – 24 agosto 2015
Stefano ascolta attentamente tutte le canzoni. Alla fine nella rosa finale ne entrano 13, puramente per una questione di “maturità compositiva”. Alcune sono ancora delle bozze e vorrei ragionarci ancora un po’ su. Buttiamo giù le guide a tempo di chitarra e voce che poi verranno “vestite” dagli arrangiamenti.
“Direi di lavorare su tutte, poi vediamo in corso d’opera cosa tenere e cosa no” suggerisce Stefano “Adesso è solo una questione di impasto”

Mi fa sempre sorridere pensare alla musica come al cibo, ma molti dei termini che vengono utilizzati in fase di studio, arrangiamento, prove e quant’altro vengono presi a prestito dall’ars culinaria. Se fossi Pico Rama o Yari Carrisi (gli amanti di Pechino Express mi capiranno) vi direi che ci sta perchè la musica è il cibo dell’anima, ma non sono così illuminata, perciò accontentatevi di sapere che ogni musicista cadrà nel tranello della metafora gastronomica. O sessuale, altre non credo di averne sentite.

Ecco sì, un bell’album è un piatto, se vogliamo. Devi saperlo cucinare e condire nella giusta maniera, inserendo sì un sacco di sapori e retrogusti, ma tutti ben dosati, con la giusta preparazione, presentazione e temperatura. Basta un niente per rovinarlo. E un bel piatto resta sempre un evergreen che non invecchia con gli anni.

“C’è un’anima abbastanza distorta e un’altra molto acustica in queste canzoni, bisogna trovare il giusto equilibrio. E il giusto equilibrio si trova ascoltando. Diamoci qualche settimana di tempo e ascoltiamo quello che potrebbe essere affine a quello che abbiamo in testa. Ascoltiamo quello che ci emoziona e poi confrontiamo i nostri ascolti”

“Che cosa ti emoziona?”

E’ come se qualcuno avesse spezzato una catena. Mi si è aperta una voragine dentro: ogni giorno facciamo delle cose che non ci piacciono perché costretti, perché il fine giustifica i mezzi, perché le cose che amiamo non ci danno abbastanza pane. E allora le lasciamo lì, vivendo un’80% di giornata di merda e un 20% di estasi. Ma quello schifo lo sentiamo, lo annusiamo, ci entra così tanto nella pelle che il resto sembra inarrivabile, inaccessibile.
A me quelle parole sono sembrate un’improvvisa ventata di libertà, di quella che avevo chiuso nel cassetto e che ora prende aria, di quella che ti fa lamentare di meno e ti rende meno stupida, di quella che rende la vita e il mondo un posto un po’ meno spregevole.

Oggi si torna in studio, oh yeah!

Antifragile, Diario di Bordo – Pilot

Partiamo dai fondamentali. Sono una persona molto timida, timidissima. Entrare nel mio mondo è difficile, mi imbarazzo per qualsiasi cosa.
Ovviamente ho scelto di voler fare la cantautrice, mettendomi sopra un palco e spogliandomi (metaforicamente) completamente. Come se un amante dello sci nautico prendesse casa a Courmayeur, o se Massimo Boldi scoreggiasse in una scena di un film di Bellocchio. Sono sicuramente due immagini suggestive, ma due domande me le farei.

So già come uscirà questo post: asciutto, un po’ discontinuo, coi tempi verbali a caso. Ma va bene così. Un conto è fare un webinar in cui parlo di crisi manageriali a 20 sconosciuti e contemporaneamente penso a che fine ha fatto Wendy Windham, un conto è trasferire una cosa che ha priorità 1000 dalla mia testa al mio amico più caro. Lo faccio pochissimo, e forse sbaglio.
Comunque parlerei esattamente così: segmentata, tesa, eppure estremamente vera.
Questa qui è l’Erin che la rational Elisa di solito nasconde per difendere.

1986 – 1999
Non è mai stato facile presentarmi per quella che sono. Il più delle volte perché non andava bene. E non sono mai stata una campionessa del “checazzomifrega“. Dacchè ho memoria ho sempre voluto fare musica, da quando prendevo lo stendino e lo usavo come chitarra farfugliando un inglese maccheronico. Ma non mi sentivo mai abbastanza capace. Mai abbastanza brava a cantare e a suonare. E il contesto attorno a me mi faceva abbastanza desistere.

La musica non è un lavoro. Uno su mille ce la fa. Ci vogliono i contatti. E poi come vivi?
Il conservatorio non è una scuola.
Allora, pensavo, la musica non è per me.

2000 – 2008
Non fu difficile imparare le lingue, compilare i mastrini, studiare diritto, pensare di fare la guida turistica. Studiavo chitarra autodidatta e un po’ no, scrivevo le mie canzoni, ma mi vergognavo, non lo dicevo a nessuno. Non ci credevo troppo. Non fu difficile fare la ragazzina beneducata. Non fu difficile diplomarmi e poi laurearmi pensando di diventare una sceneggiatrice una giornalista. I bei voti a scuola e la promessa di un lavoro promettente facevano stare tutti tranquilli, e quando mi veniva la voglia sotterranea di cantare e mettere su un gruppo la ricacciavo indietro con tutta la mia forza.

Non sei abbastanza capace.

2009 – 2012
Niente da fare. Mi sveglio alla mattina e penso alla musica. Vado a dormire e penso alla musica. L’inquietudine mi cresce dentro come un cancro. I testi e le melodie colano dappertutto. Per quanto le butti fuori dalla stanza, rientrano da sotto la porta e dalle finestre.
“Mamma, cosa devo fare, ammazzarmi per non pensarci?”

Non sei abbastanza capace, rimettiti a studiare questa cazzo di musica.

2012 – 2015
Metà lavoro serio, metà studio in accademia. Così non posso dirmi che non sto facendo nulla. Sto studiando perché ancora non sono pronta, perché se esco fuori devo essere perfetta e inattaccabile. E lavoro perché così ho una sicurezza economica. Magari suono in un gruppo, così non suono sola.
Ancora non va… Perché non sono io.
Perché metà lavoro serio non è veramente serio e mi succhia un sacco di energie. Perché studiare senza mettersi alla prova è tutta una scusa, e non accetto il fatto di poter sbagliare. Studiare è il mezzo, non il fine.

Per tre mesi mi sveglio puntualmente alle tre di notte e scrivo una canzone al pianoforte. Tre mesi di viaggio in tempesta, col mare contro, con il vento in faccia. Sola. Eppure nascono una ventina di canzoni.
Non sono sicura di me, ma le canzoni mi sembrano interessanti. Devono uscire, va oltre me.

Nel 2013 incontro Stefano Pivato, nome che puntualmente da tempo mi arriva all’orecchio. Musicista degli estAsia prodotti dai CSI, poi co-fondatore del NoShoes Recording Studio di Arino di Dolo, fonico, produttore artistico, la schiena più fotografata d’Italia. Con lui e La Cantina dei Bardi registriamo l’EP “Terzo Tempo“. Un anno dopo, in un’ora di pausa, con tutto il coraggio che ho, gli chiedo se vuole ascoltare le mie canzoni da sola, e se gli piacerebbe lavorarci su.
Dopo tante mail non lette, telefonate senza risposta, consigli (solo consigli!) mai dati da tanti addetti ai lavori, Stefano ascolta. Qualcuno MI ascolta. E mi risponde di sì.

27 luglio 2015
Spengo 29 candeline sulla torta, sono temporaneamente senza casa e senza lavoro serio. Ho paura, sono felice, sono terrorizzata, sono entusiasta tutto in egual misura. Ho paura perché mi sento troppo vecchia per mettermi a lavorare a un album e vivere di sola musica (e qualche piccolissima consulenza comunicativa, dai); sono felice perché è quello che sogno da sempre, finalmente l’ho ammesso e lo vivo senza sensi di colpa; sono terrorizzata perché sono senza un soldo; sono entusiasta perché farò qualsiasi cosa per il mio album solista, dal suonare in qualche tribute band per tirare su qualche soldino, dal dare lezioni di canto e chitarra, o vattelappesca. Qualsiasi cosa per mettermi in gioco, imparare e migliorare. Non è tanto una questione di successo, è un’urgenza. Comunque andrà, potrò vivere senza il rimpianto di non averci provato.

Perché ho deciso di tenere un diario di bordo per mostrare come si fa un album musicale? Perché per una volta vorrei condividere quello che mi sta a cuore con lo strumento con cui mi trovo più a mio agio, la scrittura. Perché non son una di quelle che prende la gente per il coppino e le chiede di essere fan a tutti i costi. Non ce la faccio, odio pure gli eventi Facebook. Perché fare un album coprodotto non è una passeggiata, ed essere musicista è ben più che prendere su un microfono e fare la coda per Italia’s Got Talent. E’ sudore, lacrime, dolore, fatica, gioia, passione, liberazione, ossessione. Perché non voglio arrendermi all’idea che per suonare in Italia si debba necessariamente fare un talent o darla via come se non fosse mia.
Ogni appuntamento sarà numerato come le puntate di una serie tv, e questo è l’episodio pilota. Perché un album è una storia con i suoi protagonisti. E a me piace raccontare, per chi ha quattro mesi di pazienza.

Ah, ovviamente l’album si chiamerà Antifragile. La prossima volta forse vi racconterò perchè.