8×01 “Amore, medicine e chitarrette”, Antifragile

Interrogazione di storia.
“Bene Bonomo, su cosa si è preparata?”
“Beh veramente prof, sugli Assiro-Babilonesi”.
“Molto bene. Mi parli dello slancio vitale di Bergson”.
“Ma come prof…”.
“Beh scusi, fa sempre parte del programma scolastico”.

Ho riassunto in poche parole cosa significa registrare le chitarre in studio con Stefano. Sono sempre stata una precisina, una di quelle che deve studiare la parte cento volte per evitare figuracce, ma soprattutto per non far perdere tempo a chi ho affianco. Invece, dopo aver fatto la brutta copia di come avrebbero dovuto suonare sopra batteria e basso, mi ritrovo a fare tutto daccapo. Al momento.

In quei momenti schizzavo malissimo. All’inizio.
“Non ne sono in grado”.
Adesso è quasi sfidante. Anzi, è sfidante.

I più sanno che il mese di aprile l’ho passato completamente a letto, con la faccia sformata, febbre alta, incapace di camminare. Poi i medicinali sbagliati hanno fatto il resto, bloccandomi le mani, togliendomi il sonno, disturbando pesantemente il mio umore.
Finita la malattia, è arrivato un sovraffaticamento muscolare alla mano sinistra.
Mano quasi ferma per due mesi. Per una che deve registrare le chitarre definitive del suo album praticamente una pacchia insomma.

Ma non mi sono persa d’animo. Ne ho approfittato per fare una cosa.

Da quando ho 15 anni, con tantissimi stop-and-go, studio chitarra elettrica.
Devo essere sincera, non ho mai avuto questa grande mano rock, ma non è stata tutta colpa mia.
Sin dall’inizio le Accademie o le Scuole partono con UNA COSA CHE A ME NON E’ MAI ANDATA GIU’: GLI ASSOLI DI CHITARRA.

Per me l’assolo di chitarra è un atto di egoismo. Lo faccio se necessario, altrimenti fottesega.
Vuoi mettere la chitarra ritmica?

Qualsiasi tipo di insegnante medio (salvo rare ed intelligenti eccezioni) parte dicendoti di ascoltare nell’ordine:
Steve Vai
Joe Satriani
Paul Gilbert
Yngwie Malmsteen
e tanti tanti altri.
Insomma, dei virtuosi.

Poi vai in sala prove con gli amici e non riesci a fare la chitarra ritmica di “Smells like teen spirit“, non hai gusto nella scelta del suono e dei vari stili. Ma shreddi da Dio e fai le pirole a 180bpm.
Poi vai a fare il turnista in studio di registrazione e ti dicono “Vorrei un assolo meno eroico. Fammi una chitarra marcia”. (cit. Alberto Milani). E tu vai in crisi.
Va tutto benissimo.

Beh, dicevamo. L’inferma Erin se ne sta a letto e ne approfitta finalmente per cercare il tipo di suono che le piacerebbe avere. E che cosa fa? Cerca i chitarristi che fanno quel tipo di musica che le piace. E fatalità sono chitarristi che le Accademie non cagano nemmeno di striscio.
Ascolta Jeff Buckley, i Pixies, i Killing Joke, i Sonic Youth, i Joy Division, i Radiohead, gli Stooges, i Cure, i primi U2. Ascolta con grandissima attenzione finalmente i Led Zeppelin e gli Ac/Dc.
Ascolta le ritmiche, prova a riprodurre gli assoli con la voce, ma giusto per sfizio.
Ascolta perché non riesce a suonare, ma le sue mani hanno già nuove idee. E ha dei suoni in testa.

“Questa malattia ti ha fatto veramente bene! Il suono è migliorato tantissimo!”
(Khaled Abbas – il mio insegnante di chitarra MMI, giovedì 26 maggio… Due settimane che non toccavo i manuali)

“L’impressione che ho, sentendoti, è che tu vuoi fare bene il tuo compitino. E’ tutto preciso e a tempo, ma è scolastico. Non mi interessa. Voglio un suono anche sporco, ma di cuore. Voglio sentire le ghost note, il carattere!”

“Suoni staccata. Accompagna il suono fino all’ultimo”
(Stefano, 23 aprile 2016 – registrazioni di “Anima Nera”)

“Pensa a Keith Richards. Questo riff se lo fai tutto a pennate in giù lo ammazzi. Ascoltalo bene. Magari non sarà tecnicamente giusto, ma senti che corpo”
(Stefano, 24 maggio 2016 – registrazioni di “Fango”)

Ogni commento mi faceva diventare sempre più piccola alimentando la voce che sì, ero una chitarrista scarsa.
Ma il mio problema non era la tecnica.
Mancava il collegamento cervello-cuore-mano.
Mancava il “proviamoci, comunque vada”.

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[Una rara foto che ritrae Stefano Pivato non di spalle. Ph: Andrea Bonomo]

Un mese in studio con un istintivo mi hanno dato molto di più di 15 anni di chitarra. Mi hanno insegnato il controllo ma anche l’istintività, la ricerca, l’accettazione di quella voglia di buttare via tutto per rifarlo di sana pianta, la voglia di suonare e di divertirmi. Di lasciarmi andare, finalmente. Chiudo gli occhi e mi diverto.
Dopottutto per me suonare è un’esigenza. La mia frustrazione nasceva dal non fare uscire tutta me stessa.
Per quanto ti dicano le cose, le capisci solo quando ti passa un tram sopra.
Siamo sulla buona strada.

La mano ogni tanto fa male. Khaled mi dice di non darci troppo peso, a volte sono cose psicosomatiche.

E negli ultimi due live, magicamente riesco a fare delle piccole improvvisazioni che non fanno troppo cagare.

“Suoni molto bene la chitarra, complimenti! Che tecnica!”
(Astanti al live al Comarò, astanti al live al Lighthouse Pub probabilmente alticci)

Sia ben chiaro, io sono FELICE di frequentare un’Accademia e dei continui input che riesce a darmi. Khaled Abbas è un insegnante eccezionale. Un altro chitarrista che mi piace un mondo e vi consiglio di frequentare almeno una volta una sua clinic è Alberto Milani.
Ma lo dico per me e per gli altri chitarristi: nessun paraocchi. Formatevi anche esternamente. Siate curiosi per conto vostro, cercate il suono, il cuore, oltre alla tecnica. Ascoltate di tutto e rubate dai vostri chitarristi a piene mani.
Cazzeggiate. Cercate di capire gli accordi usati nel funk, i lick blues, il tempo nel punk, lo sporco del grunge, l’effettistica della new wave o del dark.
Ascoltate gli altri strumenti! I giri di basso dei New Order, le batterie dei Nine Inch Nails, il pianoforte di Tori Amos. Altrimenti sarete come quei musicisti che non sanno suonare senza uno spartito davanti.

Ma che cazzo di bello è successo in questo mese?

Sostieni il mio disco su Musicraiser: perchè e come funziona

Martedì 10 maggio è partita ufficialmente la raccolta fondi per il mio album d’esordio solista, “Antifragile”. Sarà attiva fino al 9 luglio e l’obiettivo di raccolta è 3.500 euro.

Ad ogni quota che deciderete di destinarmi, ci sarà una ricompensa ad hoc studiata per voi, che racconta un po’ della mia storia:
https://www.musicraiser.com/it/projects/5547-antifragile-il-mio-primo-album-solista

Le quote che prenotate saranno effettivamente prelevate dal vostro conto al momento del raggiungimento (o superamento) del traguardo, ma per coloro che non avessero un conto corrente o Paypal è anche possibile fare una raccolta a mano durante i miei concerti (o altro appuntamento) e mi impegnerò a versarli io.

Ho scelto il sito Musicraiser.it perché sono stata io stessa raiser (partecipante) di altri progetti e perché sempre più si dimostra una piattaforma seria ed efficace, capace di dare forma a quello che un tempo poteva essere una semplice utopia, ovvero DARE FIDUCIA A UN MUSICISTA PRIMA CHE LA SUA OPERA SIA COMPIUTA.

Da Musicraiser mi chiedono di raccontarvi una storia, del perché abbia iniziato il crowdfunding ed è molto semplice: non riesco a farcela da sola.

Come ho sempre fatto, vi dirò la verità. Non ho una casa discografica alle spalle disposta a investire su di me, non ho intenzione di partecipare a un talent (ansiosa come sono, morirei alla seconda puntata), non sono ricca di famiglia (ahimè) e realizzare un disco per un’esordiente costa veramente tanto.
Non ho dati da squadernare, non ho views da capogiro su youtube, non ho tette da urlo (o forse sì), non ho nulla se non i miei live in cui convinco le persone, una ad una, ad affezionarsi a me e alle mie storie.

Nel mare magnum delle persone assurde che ho incontrato in questi anni, da promoter a sedicenti manager, giornalisti e compagnia cantante, ho avuto la fortuna di conoscere una persona che mi ha dato fiducia, interpretato i miei pensieri e investito su di me: Stefano Pivato. Lui è il mio produttore artistico ed esecutivo, si è accollato metà delle spese di realizzazione, e solo per questo meriterebbe una vincita da Superenalotto al giorno.

Ecco, vedete, siamo in 2.

Da oggi, grazie a Musicraiser siamo 2 + 31 nuovi co-produttori.

Riconosco che il materiale da farvi ascoltare/vedere sia poco, o mediocre, non è una scusante ma è difficile gestire tutto. Non mi sto occupando solo dei miei concerti, ma di coordinare la grafica del cd ad esempio, o il videoclip di lancio, o la promozione, di procacciarmi date, di spedizioni, di maglie e shopper, di stringere mani di etnie diverse dalla mia. O di studiare le chitarre da inserire nell’album, altrimenti Pivato mi appende come un giaccone.

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Io quando sono finita nel banner di Musicraiser in home vicina a Bjork e ho chiesto i sali

Lo faccio perché ci credo assurdamente. Ma soprattutto perché è la ragione per cui mi alzo ogni giorno e faccio un lavoro extra la sera. Al di là di chi mi dice che c’è crisi, che con la cultura non si mangia… Ok ok, sì. E’ vero. Ma almeno non ho niente da perdere. Almeno, e FINALMENTE, sto facendo qualcosa che mi piace.
E vi giuro, a 30 anni di amici che lavorano e son contenti di quello che fanno li conto sulle dita di una mano. Monca.

Perciò, se non mi conoscete… Venite ai miei concerti. Ne faccio un bel po’ durante la campagna e così potete ascoltare le mie canzoni in anteprima.
Altrimenti fatevi una bella chiacchierata con me. Sentiamoci al telefono, via messaggio, via skype. Vi suono qualcosa. Giuro.
E poi mi valutate se “vi arrivo”, alla X Factor.

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Grazie a tutti coloro che stanno contribuendo/hanno contribuito/contribuiranno!
Ps. Un capito a parte sarà riservato alle RICOMPENSE! :P

Il paradosso dell’eterno lottatore, Antifragile

A fianco del mio letto, dove ho passato gran parte di queste tre settimane, ci sono un paio di guantoni rossi da pugilato. Li avevo comprati circa un anno fa, quando mi ero messa in testa di fare di kickboxing.

E la feci. Tre mesi di allenamenti durissimi, con tanto di esamino finale.
Fui l’unica a non passarlo.
Me ne andai non appena fu possibile, cambiandomi in fretta e uscendo lesta dalla palestra.
A casa piansi di vergogna e di umiliazione.

Dicevo. A fianco del mio letto, dove ho passato gran parte di queste tre settimane, ci sono due guantoni rosso fiammanti con la scritta “STING” e un paradenti, tutti e tre nella custodia trasparente.

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“Donna forte, malattia forte”.
Eh già, fosse solo la malattia.
Passi che il tuo sistema immunitario di colpo impazzisce, come il mio.
Ogni giorno un dolore diverso, pernicioso e continuativo.
Cominci a dare una cadenzata ritualità oraria a tutte le medicine che devi sciropparti. Ti dà l’illusione di avere il controllo mentale di un corpo che in realtà dentro sta combattendo una battaglia tutta sua e tu puoi solo avere pazienza, avere rispetto, stare a guardare.
Ma davvero, fosse solo la malattia.

Ho passato questi giorni, ma saranno più o meno due anni o poco più, a chiedermi il senso del dolore, della sofferenza, delle difficoltà.
Cosa e chi stabilisce chi può avere una vita tutto sommato facile e chi no.
Chi si sveglia la mattina sorridendo in un giorno senza nuvole, e chi ogni giorno è impegnato a combattere una guerra diversa.

La stra-citata fine de “Le città invisibili” di Italo Calvino ricorda come sopravvivere all’Inferno: accettare di farne parte, oppure, di volta in volta, riconoscere cosa non è Inferno. Certo che scelgo la busta 2.
Inferno per me è la bugia, l’egoismo, la disonestà, l’avidità, la prepotenza.
Non le accetto, ma non perché son dura e pura, ma perché non sono fatta così. Se fossi così mi sputerei dietro.

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

A me hanno dato la spilletta della lottatrice. Quella che si è sudata ogni singolo risultato. Ma non vi dico queste cose per darmi un tono o cosa, no, son proprio così. Son quella che si preoccupa anche dell’avversario. Quella che se proprio proprio ti deve tirare un pugno, ecco, ti spiega prima tutti i perché, punto per punto.

Ecco, penso che…
Il vero senso del dolore non è che ti rende migliore.
Ti rende migliore perché ti rende estremamente ricettivo.
Ti fa accorgere.

Sono stata a letto tre settimane.
Non potevo cantare, non potevo tenere una chitarra in mano.
Però ho potuto ascoltare le canzoni degli altri, commuovermi guardando film d’altri, ridere leggendo libri d’altri.
Sono stata grata del fatto che questi Autori avessero avuto la possibilità di pubblicare le loro opere per darci un po’ di sollievo.

E sono sempre grata quando qualcuno riesce a toccarmi con un verso, una canzone, una frase.
Ogni tanto dico pure “GRAZIE!” a voce alta. Fatelo anche voi.

La cultura e chi la fa sono un atto di coraggio.

Ma gli stronzi che non provano veramente dolore non lo sanno e continuano a svalutarla e a deridere chi la fa nei modi più beceri e villani possibili, e peggio, convincono gli ingenui a fare ugualmente.

Una notte avevo la febbre così alta e un giro così figo di basso in testa che prima di prendere una pastiglia ho registrato tutto sul cellulare.
Una notte non camminavo per l’effetto del cortisone e sono scesa a tentoni per comporre una canzone.
Ogni giorno a letto pensavo al NoShoes Studio e alle chitarre da registrare.
Ho la Musica e le Parole in testa.
Chiedete a un vostro amico creativo se l’arte ce l’ha in testa 8 ore al giorno o un pelino di più.
Questo è amore.
Di più, è la mia Vita. Ciò che mi dà gioia.
Vorrei farvi capire dove sono Verità. E quanto, oltre al mio sistema immunitario, darei per vivere d’arte.

Stronzi che non sapete cos’è lottare, questo è infilarsi i guantoni e scendere sul ring.
Non è fare gli Eroi, è vivere.
Scendere sul ring è anche vedere ogni giorno i risultati peggiorare, o allontanarsi, o svanire, ma non buttare i guantoni perché sai cosa vuoi.
Scendere sul ring è ritrovare il coraggio in chi/cosa non è Inferno e averne cura immensa.
Scendere sul ring è condividere la tua lotta con altri lottatori, e ripartire. Perché non puoi far altrimenti.

Al tempo piansi di vergogna e di umiliazione perché non ero come gli altri.
Ora m’interessa solo di imparare bene a difendermi dagli stronzi, e a dare i calci e i pugni giusti.
Per tutto il resto ho la mia Verità.
Grazie a tutti quelli che si sono presi cura di me. Grazie di cuore.

“Il mondo ti spezza il cuore in ogni modo immaginabile, questo è garantito. Io non so come fare a spiegare questa cosa, né la pazzia che è dentro di me e dentro gli altri, ma indovinate un po’? Domenica è di nuovo il mio giorno preferito! Penso a tutto quello che gli altri hanno fatto per me e mi sento tipo… Uno molto fortunato!”

7×01 “Nove Mesi”, Antifragile

“Guardando il calendario mi sa che uscirà a fine maggio. O a inizio giugno”.
Prima di riprendere ad ascoltare l’ultimo pezzo di batteria editata che Stefano sta ritoccando, me ne vado in bagno.
“Settembre… Maggio”.
Conto con le dita, mentre faccio pipì.
“Settembre, ottobre, novembre, dicembre, gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio. Nove mesi, come un bambino”.
Sorrido sardonica. Ho perso il conto di quanti amici nel giro di questi anni abbiano deciso di sposarsi e mettere su famiglia. Ne è prova tangibile la mia bacheca Facebook: nel 2008 era tutto un cocktail, un concerto a Roma, una festa universitaria, adesso escono foto di torte nuziali, fidanzamenti, pargoli annunciati o in crescita.
La bacheca di Facebook invecchia con me, è un dato di fatto.

L’ultimo articolo che parla del mio album è datato 27 novembre 2015. E nel frattempo Davide “Eulo” ha suonato le batterie vere, registrate ed editate con tanta cura e autismo da Stefano.
Ma soprattutto è scorsa un’immensa quantità di mia Vita in questi mesi. Molta più degli anni precedenti. Dolore, amore, ansia, paura, divertimento. Tutto a velocità 4x. Concerti, concerti, tanti concerti. Un’emorragia continua.

Perché non più scritto? Pigrizia. Censura dei miei pensieri e sentimenti. Paura.

Quando le cose non vanno esattamente come voglio tendo a stare in silenzio.
Alcune cose me le devo proprio scordare.

Scordare (1) = dimenticare
Scordare (2) = privare dell’accordatura il proprio strumento

“Mi sento un disco rotto a dirvi le stesse cose che non vanno, amiche”.
Un disco rotto.

Un’altra risata sardonica.

Ma un’artista, una persona, deve fare i conti anche con i suoi giorni di secca.
Secca, quando non scorre nulla. I mesi-palude in cui sembra in cui non si muova nulla, anzi, ti sembra di sprofondare più giù.
Quando non hai il tempo di fare musica per divertirti, ma diventa una produzione seriale in fabbrica.
Quando non ti permetti una pausa perché il tuo cervello non te lo consente.
Quando butteresti nel pattume mesi di lavoro.
“Sei cambiata. Questo disco ti sta cambiando”
“O sono sempre stata così?”
Una maschera di buona educazione. Se me la tolgo è la fine, è una furia distruttrice.

Cadere, rialzarmi, cadere.
L’album, l’album, l’album.
Forza, energie, stress.
Le mie canzoni, la mia zattera su cui aggrapparmi quando nessun luogo è sicuro.
Fino a perdere le voce, fino a consumarmi l’anima.
Accettare che è giusto sbagliarsi.
Mostrare anche il lato oscuro. Se lo metti in gabbia, diventerà un gigante sempre più mostruoso.

“Se ti liberi tu, liberi anche noi, che siamo tue amiche. Noi ti vorremo comunque bene”.
“Tu sei tutto fuori che un disco rotto. Sei solo tanto, tanto, tanto stupida”.

Allora mi lascio andare: forse mi sono persa. Forse mi sto distruggendo.
O forse mi sto davvero liberando. Si va avanti, adesso.

“Parole al Vento” live a BoxLiveSessions!

E’ difficile spiegarvi quanto “Parole al Vento” valga per me, e quanto valga la persona per cui l’ho scritta. Nel disco a cui sto lavorando la la sentirete diversa: piano, voce e pochissime cose in più. Quasi per scommessa un giorno ho chiesto a Gianluca Gallo di arrangiarla per chitarra acustica. Mi diverte e mi affascina vedere come ogni musicista metta del suo in qualcosa di così fortemente intimo e personale. Giangi poi è un tenerone piacione e quindi gli risulta anche facile.

L’intervista e il format è a cura dei ragazzi di boxlivesessions, e in ogni puntata-chiacchierata coinvolgono amici cantanti, musicisti, scrittori, artisti. Ho avuto l’onore di partecipare alla sesta, in una mattinata freddissima ad Angoli di Mondo a Noventa Padovana (Pd).

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(Alessandro Ragazzo and I con i cappotti scambiati, appena dopo la scoperta del potentissimo Pino Mauro)

Non voglio anticiparvi nulla, ma per i più curiosi parlo un po’ dell’album in uscita e dei miei esercizi di vulnerabilità. Spero vi piaccia!

6×01 Perché chiamerò il mio album “Antifragile”

La prima volta che sentii parlare di resilienza fu ad una conferenza. Si parlava di uno studio fatto su alcuni minori che avevano vissuto forti condizioni traumatiche: terremoti, violenze, guerra, abbandono, maltrattamento, abuso sessuale.

Alcuni di loro non manifestavano un danno biologico in maniera automatica. Anzi, in una certa percentuale non presentavano nessuna conseguenza psicologica, nemmeno nel lungo termine, sebbene fossero stati vittime di ignobili sorprusi.

Erano bambini resilienti. Resilienza, parola presa in prestito dalla metallurgia, è la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici e di riorganizzare positivamente la propria vita di fronte alle difficoltà. Come un metallo resiste alle forze che vi vengono applicate.

La cosa mi affascinò, e mi colpì osservare come il nostro corpo possa reagire bene a dei carichi emotivi che visti da fuori potrebbero sembrare insostenibili. Mi colpì osservare che quei bambini avevano saputo assorbire quelle esperienze e restituirle in forma non negativa. Non li invidiavo, li ammiravo. In una forma del tutto inconsapevole avevano saputo ribaltare il punto di vista sulla situazione ed uscirne migliori.

Perché si cresce e tutto sembra complicarsi? Perché quando cresciamo siamo guidati più dalla paura e dai mille effetti che potrebbero avere i nostri comportamenti verso una determinata cosa/persona? Per i lacci. Le reti. Le relazioni che si stringono. Più si va avanti e più la maglia si allarga e al nostro “io” si aggiunge un contesto che ci stiamo costruendo via via. Eppure quante volte il contesto che ci costruiamo ci soffoca, non ci sta più su? Quante volte abbiamo la forza di abbandonarlo per qualcosa che si avvicina di più alla nostra idea di felicità? Quante volte ci manca quella forza ed è solo un modo per scappare da noi stessi? Quante volte pensiamo sia sbagliato il contesto, e in realtà siamo noi ad aver bisogno di essere ritarati? Uh, quante domande ti fai, Elisa.

La seconda volta che sentii parlare di resilienza si era già evoluta in antifragilità. Ero in un gruppo Facebook dove tra copywriter ci si scambiava link e informazioni, e uscì fuori un articolo su un libro di Nicholas Taleb, filosofo, matematico e saggista libanese. Il titolo “Antifragile. Prosperare nel disordine” e mi incuriosì la recensione.

Sappiamo che la nostra incapacità di comprendere a fondo i fenomeni umani e naturali ci espone al rischio degli eventi inaspettati. Ma l’incertezza non è solo una fonte di pericoli da cui difendersi: possiamo trarre vantaggio dalla volatilità e dal disordine, persino dagli errori, ed essere quindi antifragili. Il robusto sopporta gli shock e rimane uguale a se stesso, l’antifragile li desidera, e se ne nutre per crescere e migliorare.

L’incertezza, lo stress, la fragilità. Ho dovuto fronteggiare spesso come quasi trentenne queste situazioni, un po’ per mia causa, un po’ per cause di forza maggiore.

Alcune cose traggono beneficio dagli shock, prosperano e crescono quando sono esposte a mutevolezza, casualità, disordine e fattori di stress e amano l’avventura, il rischio e l’incertezza. Ciò nonostante, a dispetto dell’onnipresenza del fenomeno, non disponiamo di un termine che indichi l’esatto opposto della fragilità. Per questo parleremo di antifragilità. L’antifragilità va oltre il concetto di «resilienza elastica» e di robustezza. Una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima: l’antifragile dà luogo a una cosa migliore. Questa proprietà sottende tutto quanto cambia nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico.
L’antifragilità ama la casualità e l’incertezza, il che significa anche amare gli errori, o meglio una particolare classe di errori. L’antifragilità possiede una proprietà unica nel suo genere, che ci permette di venire alle prese con l’ignoto, di fare certe cose senza capirle e di farle bene. Permettetemi di essere più drastico: siamo molto più bravi a fare che a pensare, grazie all’antifragilità. Preferirei mille volte essere stupido e antifragile che estremamente intelligente ma fragile. L’antifragilità va oltre il concetto di «resilienza elastica» e di robustezza. Una cosa resiliente resiste agli shock ma rimane la stessa di prima: l’antifragile dà luogo a una cosa migliore. Questa proprietà sottende tutto quanto cambia nel tempo: l’evoluzione, la cultura, le idee, le rivoluzioni, i sistemi politici, l’innovazione tecnologica, il successo culturale ed economico.

E poi tante altre belle considerazioni sul fatto che non sempre una crisi ha una accezione negativa, che un evento negativo che sconvolge la tua serenità ti costringe a ricostruire un equilibrio, che lo stress aiuta spesso a creare di più (!).

Il mio concetto di antifragilità è la consapevolezza che nonostante tutto io sarò sempre io. Saprò sopravvivermi. Imparerò dai miei successi e dai miei errori. Dai giorni in cui ho difficoltà a stare al mondo, dai giorni in cui nonostante tutto mi sento grata alla vita. Qualsiasi cosa accadrà saprò darmi una scrollata di spalle e camminare diritta a me.

Per qualche mese ho pensato di cambiare il nome dell’album, da “Antifragile” a “Non mi somiglio per niente” vista la grande differenza tra questo lavoro e “Terzo Tempo” con La Cantina dei Bardi, e invece, ora come non mai, lo terrò.
L’ho sposato come mio modo di vivere. E’ impossibile resistere a tutto, è deleterio spezzarsi in continuazione. Io so che posso spezzarmi in qualsiasi momento, ma so anche come ripararmi. E a essere d’aiuto agli altri quando si spezzano.

Quante persone dicono la verità solo quando sono vulnerabili. Io li trovo di una bellezza sconvolgente, perché non hanno filtri.
Mi sento fuori posto se non ho un lavoro regolare e sono tornata a vivere dai miei dopo anni di indipendenza economica? Sì. Ma non potevo fare altrimenti. Non posso accontentarmi di una realtà rassicurante per gli altri e che a me puntualmente fa venire l’orticaria.
Ora che l’ultima carta da gioco è stata gettata sul tavolo, l’ultimo velo è stato tolto dall’opera io mi sento scoperta, vulnerabile, più che mai incerta. Cammino sopra un campo minato, e tuttavia non sono ancora saltata per aria. Ho capito di essere una non-lineare, ma tuttavia onesta. Non so cosa mi accadrà. Non lo posso prevedere.

Questo album è un esercizio di imperfezione. Non vi farò vedere quanto suono e canto bene, non vi farò vedere quanto ci so fare con gli arrangiamenti. Sarò io. Non vi dirò palle. Vi dirò quando sto bene, quando sto male, quando ho voglia di ridere, quando ho voglia di piangere. Sarò umana. Mai come ora son stata così sincera.

5×01 “Ciò che deve accadere accade”, Antifragile

Novembre 2015

Sono stati giorni di entusiasmo e tempesta. Di panico e serenità. Di sconforto e impotenza, ma anche di incontri e scambi intensi. Sembra una banalità, ma scegliere di vivere facendo ciò che si ama migliora di molto i rapporti sociali. E migliora la qualità dei discorsi a tavola. Nel mio caso si tratta di una vera e propria forbice: quando ho uno stipendio fisso mi lamento, divento un’ombra, sono circondata da persone che mi infastidiscono, adesso che lotto per arrivare alla fine del mese sono circondata da persone più o meno lontane che mi vogliono bene senza chiedere nulla in cambio.
La mia indole è sempre portata a ripagarli in un qualche modo, ma per ora posso offrire loro la mia amicizia e le mie parole. O del cibo, molto cibo. Sembra che a loro vada bene comunque.

L’immagine che più mi rappresenta in questo periodo mi raffigura sorridente seduta in cima a un burrone. C’è pericolo e c’è vento, ma io sono serena, aspetto, sento dei passi che si avvicinano. Sono distanti ma in qualche modo mi proteggono. Io non posso tornare indietro, né saltare. Posso solo aspettare e dire la verità, non riesco, non so più mentire.

Sorrido sempre: quando sono nervosa, quando mi imbarazzo, quando voglio esserti vicina. Le lacrime le tengo per me, la mattina presto quando mi sveglio, quando penso a un amico che non c’è più, la notte quando ripenso alle ingiustizie e le dissonanze quotidiane.

In tutto questo grande rumore di fondo il disco cresce, e ci avviciniamo alla fine della pre-produzione. Mancano solo due pezzi, “Parole al vento” e “Domani inventerò“. Ogni volta che ritorno in studio, penso di avere una grande fortuna: in quegli interminabili pomeriggi e sere premo il pulsante “pausa” alla vita. Scappo, gioco, trovo il suono e la dimensione ideale dei miei pensieri.

“Per me rappresentare è vivere di più… E’ aggiungere, è idealizzare, trasfigurare. Aggiungere emozioni alle emozioni, passioni alle passioni… Dove finisce la rappresentazione, finisce la realtà” (Monica Vitti)

Il problema principale è tornare a casa. La macchina che si rompe, i lavori, i soldi, gli ospedali, le prime rughe d’espressione, il primo capello bianco, perciò la conseguente lotta ai segni dell’età, alle prime rughe superficiali e agli inestetismi della cellulite, oddio i 30, studio poco, le cose che perdo, le cose che dimentico… Penso a così tante cose che è difficile ordinare tutto in un discorso logico.

Mi ero preparata un bel discorso, sapete, sul ruolo del produttore. Su come un’intuizione geniale possa far diventare un pezzo reggae una hit disco sbanca-classifiche e lanciare gruppo e relativo disco nell’Olimpo della musica internazionale. Ma poi al solito dimentico la retorica e parlo del superfluo.

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Chris Stein, il chitarrista dei Blondie, lavorava da due anni su un giro reggae dal titolo Once I had love. Il gruppo la suonava spesso ai concerti, anche in chiave rock. Quando arrivarono in studio per registrare l’album Parallel Lines, il produttore Mike Chapman ascoltò il giro di accordi e l’incipit, rimanendone colpito. “Once I had a love and it was a gas… Soon turned out had a heart of glass. Questa è una potenziale hit. Ma il mercato americano non accetterà mai il reggae. Riarrangiamola in chiave disco, è questo quello che va ora. E bisogna assolutamente cambiare titolo”. Nacque Heart Of Glass. Il resto è storia.

Riascolto le canzoni e gli arrangiamenti, e penso che quest’album sarà come me. Arrabbiato, melanconico, dolce, ironico. Io, che rido tanto, ho imparato a ridere e far ridere per sopravvivivermi. Mi serve come balsamo per togliere le croste dell’umiliazione, della vergogna, dell’inadeguatezza. Le ferite rimarranno sempre, ma la risata mette tutti sullo stesso piano, e per questo l’adoro. Avrò sempre il desiderio di farmi piccola piccola come un fagotto per non farmi notare, ma il ridere di me mi consente una piccola violenza, il mettermi in gioco, il non implodere in me stessa.

Il produttore è qualcuno che vede oltre te. Mette ordine nei tuoi pensieri musicali disordinati e li canalizza in un’unica direzione che sembrava impossibile. Sa trovare il diamante in un ruvido e grezzo pezzo di pietra chitarra e voce. Aggiusta, lima, cesella, cambia, stravolge dove necessario.
Non deve essere una scelta casuale. La ricerca del produttore può essere anche lunga perché devi dargli fiducia totale. Il produttore è un suono, un gusto particolare. E poi, proprio perché la scelta è stata fatta a monte, devi mettere pochissima bocca o nessuna nelle sue scelte artistiche.
Lui/Lei ha il dovere di fare suonare l’album da paura, tu hai il dovere di consentirgli di toccare i tuoi vestiti, le tue parole, il tuo corpo per fare uscire quello che realmente sei, e che inconsapevolmente non conosci.

Penso a Monica Vitti, alla sua voce fragile, roca, eppure sua, distinguibile tra milioni di sussurri e grida.
Penso a me. Non sono Steve Vai. Non sono Christina Aguilera.
Ad un certo punto qualcuno ci prende per mano, e bisogna avere la forza di camminare, nonostante tutto.
E allora lavorerò sui miei difetti, perché proprio in quelli sono io.